Data: 30/09/2003 - Anno: 9 - Numero: 3 - Pagina: 39 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)
Nel passato ci siamo più volte interessati di particolari episodi della seconda guerra mondiale, la grande ondata che ha investito, marginalmente ma non troppo, anche Badolato. Abbiamo raccontato fatti e immagini, pur senza pretendere di esaurire gli argomenti. Anzi, a mano a mano che indaghiamo ci imbattiamo in nomi e in avvenimenti che non conoscevamo e che modificano o completano le nostre precedenti acquisizioni. Così tempo fa abbiamo avuto modo di leggere alcune deliberazioni comunali che in qualche modo si rifanno ad episodi bellici verificatisi nel territorio comunale di Badolato. Una in particolare parla di uno spezzonamento di aerei anglo-americani l’11 luglio 1943 in località Angramailla, nella nostra montagna, e del conseguente ferimento di un mulattiere, certo Mario Gagliardi, che lavorava in quel periodo per la ditta Salvatore Zoccali. Com’è nostra abitudine, ci siamo messi a cercare, con l’impegno usuale e che l’argomento, secondo noi, meritava. Abbiamo telefonato a decine di paesi della Calabria, , ovunque risultava un Mario Gagliardi abbonato al telefono, nella speranza di rintracciare almeno qualche parente del mulattiere probabilmente ormai deceduto: da Reggio ad Arezzo, a Nicotera, a Placanica, a Catanzaro, a Roma… nessuna traccia di un Mario Gagliardi mulattiere nella montagna di Badolato nel 1943. Dobbiamo confessare che, non avendone mai sentito parlare, ci viene il sospetto che la deliberazione fosse un po’ forzata allo scopo di far emettere il “provvedimento col quale al Comune di Badolato si riconosce la qualifica di territorio già sottoposto ad offese aeree Alleate con tutti i benefici economici derivanti da tale riconoscimento a favore del personale impiegatizio.” Così recita la deliberazione. In ogni caso di Mario Gagliardi doveva pur esserci da qualche parte una traccia! Invece, nulla. In compenso, però, tempo fa abbiamo avuto in regalo dall’amico Franco Vallone un libro che in qualche modo ci riporta ai fatti di guerra di cui alla citata deliberazione comunale dell’8 luglio del 1945. L’opera, di Filippo Bartuli, Edizioni Mapograf, che ha per titolo “Le incursioni aeree anglo-americane del 1943 su 60 città e località calabresi”, è stata realizzata nel 2002 dall’Associazione Pro Loco di Mileto (VV). Centoventi pagine che raccontano, documenti alla mano, non la seconda guerra mondiale ma la morte di centinaia e migliaia di persone della nostra terra, mediante mitragliamenti e spezzonamenti degli aerei anglo-americani. Vi si legge di 38 contadini di Mileto, da 2 a 67 anni, falciati dalle mitragliatrici nemiche mentre rientravano dai campi il 16 luglio del 1943. E di bambini schiacciati dalle macerie in un asilo di Vibo Marina il 12 aprile 1943: Nicolina, Vincenzo, Anna e Franca Neri, fratelli di 10, 7, 3 anni, l’ultima di 7 mesi, morti insieme alla madre, Mariantonia Romano. Ma è la guerra! E le bombe, si sa, non sanno leggere né l’età né la condizione delle persone. Sarà, ma il nostro pensiero corre veloce all’aprile di sessant’anni dopo, alla guerra non ancora finita nella terra degli Iracheni. Anche qui, nonostante le anglo-americane bombe intelligenti, scuole e mercati e palazzi bombardati, migliaia le vittime civili innocenti: per errore. Perché, si sa, è la guerra! Di questo hanno cercato e cercheranno sempre di convincerci. Servendosi, allora in Italia come oggi in Iraq, e chissà come quante altre volte ancora, anche della “Quarta arma”, l’arma psicologica, mediante l’inondazione di milioni di manifestini di propaganda. Contro i tiranni! Di ieri, di oggi, di domani. Secondo Bartuli, l’autore del libro di cui stiamo parlando, si tratta di atti della guerra psicologica e terroristica, teorizzata e pianificata dal Comandante del Bomber Command, il generale Arthur Harris, e consistente nel bombardamento aereo massiccio sulle città come atto determinante della guerra psicologica. Lo stesso Arthur Harris che “pianificò l’inferno aereo scatenato sulla bella città tedesca di Dresda da 1.225 fortezze volanti, a pochi giorni dalla resa tedesca… causando 180.000 morti (dati della Croce Rossa Internazionale), più di quelli causati dalla bomba atomica di Hiroshima o di Nagasaki. Quattro volte più di quelli causati nel campo di concentramento di Buchenwald in anni di terrore nazista.” Sfogliando ancora le pagine di Bartuli vi leggiamo del bombardamento del 19 agosto (1943) della stazione ferroviaria di Badolato e del conseguente incendio del deposito di carbone (“La Radice”, n° 2/2003, pag. 1). Ed anche dei bombardamenti sulla SS 106 all’altezza del Gallipari e del Vodà. E pure dei tanti bombardamenti su Vibo Valentia (per l’aeroporto), su Catanzaro Centro e su Catanzaro Lido (per l’importante nodo ferroviario). Nel rimandare al libro più volte citato per conoscere date e conseguenze delle innumerevoli incursioni aeree sulle città calabresi, pubblichiamo qui le memorie di due nostri affezionati lettori, diretti testimoni, nell’estate del 1943, di due massacri causati dagli aerei anglo-americani. Ecco cosa ricorda, oggi, l’amico Enzo Pedullà, catanzarese, residente a Scandicci con la moglie, badolatese. DOPO SESSANT’ANNI- RICORDI
27 Agosto 1943, giorno nefasto per la mia Catanzaro. Quella mattina alle ore dieci circa, urlarono le sirene d’allarme, come avveniva ormai quasi ogni giorno. Questa volta, però, non urlarono inutilmente. Quasi un presentimento mi indusse a lasciare l’ufficio (era il mio primo impiego) e, dopo avere comprato un chilo di pesche presso il vicino fruttivendolo, mi avviai verso casa per raggiungere mia madre, che, reduce da un serio intervento chirurgico, era depressa e sapevo assai impaurita dall’urlo delle sirene. Da piazza San Giovanni mi avviai, con passo spedito verso via Nazionale, dove abitavamo; superai il castello normanno (sede del rifugio antiaereo) e giunsi all’altezza dell’Istituto Tecnico Industriale, quando il rombo assordante degli aerei anglo-americani ed i fischi delle bombe da essi sganciate, mi consigliarono di fermarmi e di trovare rifugio sotto l’arco di una delle porticine di servizio dell’Istituto. Mi raggiunse, trafelato, uno smilzo soldatino con a tracolla il tanto discusso fucile Mod. 91, il quale considerato il fisico del fantaccino, mi sembrò enorme e, peraltro, inutile in quel frangente. Fu l’ira di Dio! Le bombe caddero a grappoli e da altezza ravvicinata, dando una impressione apocalittica alla quale parteciparono tutti i miei cinque sensi. C’era nell’aria un acuto odore di zolfo e le orecchie, poi, per quanto le avessi coperte con le mani, sembrava volessero scoppiare. Un carro, trainato da buoi, carico di sabbia della vicina “Fiumarella” rasentò il mio precario rifugio a velocità insolita per quel tipo di trasporto. I buoi, noti per la lentezza dei movimenti, diventati cavalli imbizzarriti, trascinavano il carro ormai ribaltato, lasciando sul selciato una scia di sabbia. Vidi, quella che i Catanzaresi avevano definito la “mamma” del bronzeo monumento ai caduti (la quale, in realtà, rappresentava la Patria piangente) volare letteralmente verso l’alto e ricadere, riducendosi in frantumi , nel giardinetto prospiciente il Palazzo di Giustizia. L’apocalisse durò non più di cinque minuti, dopo di che subentrò, come si direbbe oggi, con discutibile ossimoro, un “assordante silenzio”. Al mio stato di quasi incoscienza e di rassegnazione al peggio, subentrò la paura, che m’ indusse a tornare sui miei passi per trovare sicurezza nel rifugio scavato nel tufo del castello. Colà giunto, pensai a mia madre; a mio padre nel suo Ufficio al centro della Città; ai miei fratelli, entrambi certamente fuori di casa. Mi venne l’angoscia e piansi amaramente pensando a quanto poteva essere loro accaduto. All’improvviso m’imbattei in mio padre. Nel buio del ricovero mi sembrò un’apparizione, ma mi convinsi presto che era lui, in carne ed ossa e, commossi entrambi, ci abbracciammo. Ansiosi e preoccupati, ci avviammo verso casa imboccando la Via Nazionale per Tiriolo ( ora Via A. Turco ), dove una grossa bomba era caduta nel bel mezzo della strada facendo strage di gente (contai almeno cinque cadaveri nei pressi della pescheria), mentre una colonna di acqua saliva da una tubazione colpita dell’acquedotto. Tornarono a casa anche i miei fratelli e così potemmo tranquillizzare, insieme, la mamma, preoccupata per quanto ci era potuto accadere. Quanto a me, l’unico danno subito era stata la perdita di quelle povere pesche, che vidi rotolare sul selciato come impaurite per quanto stava accadendo. Forse a loro debbo la mia vita, considerato che quei pochi minuti occorsi per comprarle m’impedirono di trovarmi in quel maledetto angolo di Via Nazionale, dove avvenne la strage. Il giorno dopo, si contarono ben 310 morti e numerosi feriti, alcuni dei quali colpiti dalle mitraglie degli aerei (credo siano stati dei caccia), i cui piloti si dilettarono a sparare lungo tutto il Corso Vittorio Emanuele (ora Mazzini). Mio padre mi raccontò della carneficina avvenuta presso la piazzetta antistante la Banca d’Italia, dove vide gente decapitata, con gli arti amputati, morta dissanguata. Era il giorno del pagamento di stipendi e pensioni per i dipendenti e gli ex dipendenti pubblici. Ultimo mio ricordo, ma non ultimo per la tristezza arrecatami, va al mio caro compagno di studi, Aldo S., anche lui al suo primo impiego in Catasto (Ufficio di fronte al Liceo Galluppi). L’edificio fu colpito da bombe incendiarie ed una trave, in fiamme, l’aveva immobilizzato senza che nessuno potesse salvargli la vita. Lascio immaginare, come io immaginai, la lunga agonia di quel giovane! I suoi cari poterono riconoscerlo attraverso un brandello della sua camicia scozzese e per un ciuffo dei suoi biondi capelli. Povero Aldo! Lo chiamavano “ Mammolo “ come il nano di Biancaneve, per la sua timidezza, che gli traspariva attraverso il rossore delle gote. Qui finisce il racconto, triste ma reale, di quanto accadde quel giorno e qui mi vengono spontanee alcune considerazioni. Non vi erano obiettivi militari da colpire, almeno nelle zone bombardate. Forse il vero obiettivo era stato quello di incutere terrore alla popolazione (cosa che avvenne anche in altre città d’Italia) per farla sollevare contro il governo di allora. Probabilmente il sacrificio di pochi (ma non tanto) può essere servito ad accelerare la fine di una guerra (già per noi perduta), che si combatteva da ormai tre anni e che, perdurando, avrebbe prodotto chissà quante altre vittime. “A la guerre comme à la guerre”, dicono i francesi. Noi, italiani, anche per orgoglio nazionale, possiamo fare riferimento a quanto il nostro Machiavelli consigliava alla “Principe”: ogni mezzo è buono per raggiungere uno scopo. Ma, mi domando, questi insegnamenti erano e sono morali ? Enzo Pedullà
Leggiamo ora la memoria dell’amico Antonio Loprete, Catanzarese anche lui, ma tanto vicino a Badolato e a “La Radice”, anche per la sua lunga e operosa permanenza qui tra noi.
RICORDI DELLA 2ª GUERRA MONDIALE
Venerdì 13 giugno ho partecipato alla S. Messa che i ferrovieri di Catanzaro Lido del deposito locomotive, e con la partecipazione del dopolavoro ferroviario, ogni anno solennemente fanno celebrare, in onore di S. Antonio di Padova, dai Padri Francescani Conventuali della Parrocchia del Sacro Cuore, vicina all’impianto ferroviario. Da quando sono residente a Catanzaro Lido, 1988, partecipo quasi ogni anno a questa manifestazione religiosa che i ferrovieri di questa località celebrano per la particolare devozione e come atto di porsi sotto la protezione del Santo di Padova, con le loro famiglie. Questo atto di grande religiosità viene tramandato dai ferrovieri che generazionalmente si sono avvicendati nel loro lavoro, a prescindere dalle mansioni, in questo impianto ferroviario qual è il deposito locomotive e che nelle varie epoche e vicende aziendali è stato fucina di operosità e di insegnamento tecnico ed umano. Particolarmente sono devotamente collegati a questo rito dopo il disastroso bombardamento aereo, ultimo di una lunga sequela dal 1941, nel giugno 1943, che distrusse i capannoni, le rimesse e le officine del predetto impianto con la perdita di un solo dipendente e con lo smarrimento fra le macerie della statuina di S. Antonio che veniva custodita in una piccola edicola. Durante i lavori di ripristino, dopo la guerra, nel 1946, venne miracolosamente ritrovata la statuina che aveva riportato soltanto una piccola ammaccatura nella parte inferiore vicino alla base. Dopo questo evento crebbe ancora di più la devozione dei ferrovieri di Catanzaro Lido per il Santo, tanto che ogni anno di più viene venerato ed onorato dai suoi fedeli lavoratori delle ferrovie e dalle loro famiglie. Quest’anno ricorrendo il 60° anniversario del doloroso evento bellico hanno voluto onorare il Santo con maggiore partecipazione e presentando la pubblicazione di un libro dal titolo molto significativo: “S. Antonio ed i ferrovieri di Catanzaro Lido” autore il Prof. Vincenzo Belcamino, il quale, avvalendosi di molte testimonianze di dirigenti, impiegati, tecnici ed operai succedutisi negli anni in servizio presso il predetto impianto delle ferrovie, ha raccolto abbondante materiale da partecipare ai lettori come questi lavoratori che sono particolarmente legati a questo Santo, perché particolarmente debitori per averli salvati miracolosamente dai tanti bombardamenti susseguitisi in quegli anni di orrenda e barbara guerra, e perché, malgrado le distruzioni e demolizioni sofferte dalle strutture, si ebbe la morte di un solo ferroviere. Al sottoscritto, ferroviere in pensione e figlio di ferroviere, viene alla mente un ricordo di uno struggente dolore che ebbe a sopportare la mia povera mamma durante la predetta guerra 1940/45. Nel settembre del 1942 venni assunto in ferrovia presso la stazione di Catanzaro Sala; avevo 17 anni non ancora compiuti, con la qualifica di Alunno d’ordine delle stazioni, conoscevo già il telegrafo Morse, l’unico sistema di comunicazione per il servizio ferroviario di allora, mi abilitai ai servizi di stazione biglietteria, servizio merci, telegrafo e prestavo servizio ora al telegrafo ora alla biglietteria, molto lavorata per l’esistenza a Catanzaro di Distretto militare e vari ospedali militari; spesso prestavo servizio alla gestione merci. La guerra diventava sempre più vicina ed orrenda, i continui allarmi aerei ci costringevano anche di notte a rifugiarci nella galleria delle ferrovie Calabro-Lucane, ormai usata come rifugio antiaereo dopo la chiusura temporanea del servizio per i continui bombardamenti del Capotronco di Catanzaro Marina, finché, si giunse alla mattina del 19 agosto 1943 verso le nove o dieci circa, con un violento bombardamento della stazione di Catanzaro Sala. Con un altro collega della mia stessa età, che successivamente risultò disperso, prestavo servizio alla biglietteria, in quel momento non molto frequentata per le interruzioni della linea ferroviaria a Catanzaro Marina, a S. Eufemia ed in quasi tutto il sud. Al primo segnale d’allarme della sirena scappai come un forsennato per rifugiarmi nella citata galleria delle Calabro-Lucane, non illuminata, ma appena entrato e percorsi una ventina di metri, una forte esplosione ci stese tutti per terra rovinosamente e, fra pianti, invocazioni e terrore, passarono una ventini di minuti interminabili tra scoppi, boati e quant’altro. Appena ci siamo resi conto che l’incursione aerea si era esaurita, una lunga angosciante pausa terrorizzante ci colpì tutti: eravamo all’incirca cinquanta o più persone che avevamo trovato rifugio in questo improprio ma provvido ricovero. Non dimentico mai il pianto, la disperazione dei due miei amici figli del Capo Stazione D’onofrio, Ettore e Peppino, poiché il padre era in servizio alla D.U. provvisoriamente ubicata, per sicurezza, in alcuni locali a piano terra sulla sinistra della stazione verso l’imbocco della galleria Sansinato e certamente in quel particolare momento avranno percepito nel loro subconscio quale triste fine fosse toccata al loro amato genitore (trovato subito fuori dell’Ufficio quasi decapitato da una scheggia). Qualche istante dopo, avendo intuito che era cessato il bombardamento, con molta cautela ognuno cercava di uscire per rendersi conto quanto era successo e naturalmente capire lo stato di salute dei propri cari ed amici. Io con un mio conoscente ed amico della mia famiglia, di Squillace, militare di stanza in un baraccamento vicino, destinato dopo due anni di guerra in Africa Settentrionale, ci avviammo verso l’imbocco della galleria F.S. del Sansinato, dove vi erano state molte vittime e dove proprio fra la stazione ed il predetto imbocco ci siamo trovati una vera ecatombe di morti e subito abbiamo notato il cadavere del fratello di questo mio amico, il Capo Stazione Totino Giuseppe, che prestava servizio al momento del bombardamento nella stazione di Sala. La notizia del bombardamento e delle numerose vittime che aveva provocato giunse con la rapidità del suono in tutti i paesi vicini e anche a Stalettì dove la mia famiglia era st5ata costretta a sfollare lasciando l’abitazione vicino alla stazione ferroviaria di Squillace, dove normalmente risiedeva. I miei apprese dopo qualche ora, dalle voci circolanti in paese, la morte di tante persone, come quella del Capo Stazione Totino col quale ci legava una lunga e vera amicizia con tutti i suoi parenti residenti a Squillace Scalo. Mia madre, allora trentottenne, in cinta dell’ottavo figlio e tanto legata a tutti i figli e particolarmente a me, il primogenito, presa dalla disperazione al pensiero che una orribile cosa potesse essere successa anche a me, si sciolse i capelli e con un pianto dirotto supplicò S. Antonio, del quale era particolarmente devota, chiedendo che io tornassi e casa sano e salvo, offrendo, in mia vece, il frutto che portava in grembo, e promettendo che, cessata la guerra, avrebbe in onorato il Santo di Padova con una visita al suo Santuario, assieme a me, miracolato. Io, dopo lo smarrimento originato dallo spavento e dalla visione di tutti quei poveri morti, lasciai la stazione di Catanzaro Sala verso l’imbrunire di quello sciagurato 19 agosto, che in tutti questi anni ho ricordato ogni anno con un breve pensiero e qualche preghiera, mi sono messo in cammino a piedi e, per evitare altri eventuali bombardamenti o comunque eventuali incursioni aeree, mi allontanai dalla ferrovia e dalla strada statale; domandando informazioni alle poche persone che incontravo, passai da Germaneto, S. Floro, Borgia e Squillace paese, arrivando in nottata tarda a Stalettì dove i miei compianti e cari genitori ed i miei fratelli, trepidanti e ansiosi, mi potettero abbracciare. Dopo pochi mesi mia madre diede alla luce felicemente ed in piena salute il mio fratellino che portava in grembo. Questo mio bello e paffuto fratello che venne battezzato col nome di Pompeo, in onore della Santa Madre di Pompei, cresceva molto bene, abbastanza nutrito, come d’altronde tutti i figli che mia madre ha avuto. Quando il piccolo Pompeo raggiunse l’ottavo mese si sentì improvvisamente male e malgrado l’affetto e le cure che in quei tempi, siamo nel 1944, potevano essere fatte e i medicinali reperibili solo in alcune farmacie di Catanzaro, il mio povero fratellino morì. Mia madre, mio padre e tutti noi altri sei fratelli fummo molto addolorati per questo tragico epilogo della breve vita di Pompeo, ma mia madre dopo la disperazione e le lacrime versate si rasserenò convinta che si era compiuto quanto lei inconsciamente aveva chiesto in un momento altrettanto doloroso col cuore e l’amore di una mamma in pena. Passato il primo dopoguerra, doloroso per i tanti bisogni della gente ed il paese spezzato in due, mia madre, ricordandosi sempre di quanto promesso al Santo di Padova, mi ripeteva sovente: figlio vedi quando puoi essere libero per poter compiere la promessa fatta a Sant’Antonio. Il mio lavoro, il matrimonio, la nascita dei figli, la perdita prematura di mio padre e poi tante cose che la vita pone nel tuo cammino… soltanto nel 1970 o 1971 fu possibile sciogliere questo voto che tanto anelava mia madre di sciogliere. Non racconterò la gioia di mia madre e la mia nel momento di entrare nella Basilica, confessarsi e comunicarsi e pregare davanti alle reliquie del santo, di cui mia madre aveva invocato l’aiuto nel momento più tremendo del bisogno e che andava a ringraziare, con un tantino di mestizia per il figlio perso, per la grazia chiesta ed ottenuta. Come non ricordare l’ansia e la trepidazione ed i momenti più salienti di questa piccola avventura terrena! Anch’io ringraziai S. Antonio, amico dei ferrovieri, per avermi salvato dalla ferocia della guerra e avere accolto, anche se alla lettera, la disperata preghiera di mia madre.
Catanzaro Lido, 4 luglio 2003 Antonio Loprete
Vogliamo chiudere queste lunghe pagine con il contributo, non del tutto fuori luogo, di un altro nostro affezionato lettore, Pino Durante, di Vibo Valentia, che ci ha partecipato la poesia che segue: ALL’ARMI! ALL’ARMI!
Sono Imglesi e Americani Vuole Busch in man la pace van gridando “All’armi! All’armi!” ed in suo poter la guerra, Ad urlar non sono carmi vuol distrugger se gli piace sono missili e cannoni. e salvar così la terra. |