Data: 30/09/2003 - Anno: 9 - Numero: 3 - Pagina: 6 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Ulderico Nisticò (Altri articoli dell'autore)
Non è che sappiamo molto, della Magna Grecia di cui tanti parlano, e in verità sapendone ancora di meno. Ci è preziosa dunque ogni notizia, per poca che sia e magari poco credibile. Raccontiamo qui una storia che in qualche modo passò, letteralmente, anche qui da noi. C’era sul Tirreno una città tanto antica che già Omero ne parla nel I dell’Odissea, Temesa, produttrice di bronzo e importatrice di ferro; fondazione, dice Strabone, degli Ausoni, poi venuta in mano degli Etoli di Toante, quindi ai Bruzi e ai Romani, che la chiamarono Tempsa. “C’è vicino a Temesa un eroion cinto di ulivi selvatici, dedicato a Polite, uno dei compagni di Ulisse, che, ucciso a tradimento dai barbari si adirò contro di loro, finché impose agli abitanti un tributo secondo la sentenza dell’oracolo, e ci fu il proverbio che riguarda chi agisce di malavoglia, dicendosi che hanno addosso l’eroe di Temesa. Quando i Locresi Epizefiri presero la città, raccontano che il pugile Eutimo, sceso in battaglia contro di lui, lo vinse e costrinse a liberare gli abitanti dal tributo.” Anche Pausania narra la storia di questo eroe di Temesa: “Eutimo era per stirpe dei Locresi d’Italia, che abitano il territorio dello Zefirio sul promontorio, e si denominava dal padre Asticle; ma gli indigeni dicono che non era figlio suo, bensì del fiume Cecino, quello che, segnando il confine tra lo Stato locrese e quello di Reggio... Dopo che vinse nel pugilato nella LXXIV Olimpiade, non doveva accadergli la stessa cosa nella seguente: infatti Teagene di Taso, volendo ottenere nella stessa le vittorie del pancrazio, batté Eutimo nel pugilato, ma non poté ottenere neppure lui la corona del pancrazio, perché esausto dopo la lotta con Eutimo. Perciò gli Ellenodici impongono a Teagene la pena sacra al dio di un talento, e un talento del danno inferto ad Eutimo, perché pareva loro che avesse scelto lo scontro di pugilato con Eutimo per tracotanza nei suoi confronti: perciò lo condannano a pagare ad Eutimo del denaro anche a titolo privato. Nella LXXVII Olimpiade Teagene pagò al dio quel denaro e non affrontò quello nel pugilato. Quindi in quella e nella seguente Olimpiade Eutimo ottenne la corona del pugilato. La sua statua è opera di Pitagora e massimamente degna di ammirazione. Tornato in Italia, combatteva contro l’eroe: e questo accadde così. Dicono che Ulisse vagando dopo la presa di Troia approdasse per azione dei venti in diverse città d’Italia e di Sicilia, e giunse anche a Temesa con le navi; uno dei suoi marinai, ubriaco, violò una vergine, e per questo delitto venne lapidato dagli abitanti. Ulisse non tenendo in alcun conto la sua perdita ripartì, ma l’anima dell’uomo lapidato continuamente uccideva gli abitanti di Temesa e infuriava contro ogni età, finché la Pizia, mentre non permetteva loro di lasciare del tutto l’Italia come intendevano, ordinò di placare l’eroe riservandogli un recinto sacro ed edificando un santuario, e consacrandogli ogni anno la più bella delle vergini di Temesa. Dopo aver compiuto quanto ordinato dal dio, non c’era loro alcun timore del demone. Ma Eutimo giunse a Temesa, e viene a sapere del costume vigente, e desiderò andare nel tempio e ammirare la vergine. Come la vide, prima fu colto da pietà, quindi da amore per lei: e la fanciulla giurò di sposarlo se la salvava, ed Eutimo, ben preparato, attendeva l’arrivo del demone. Ecco che lo vinceva in duello, e l’eroe se ne andava da quella terra e sparve scendendo nel mare, ed Eutimo ottenne splendide nozze, e i cittadini la libertà dal demone. Circa Eutimo appresi anche un qualcosa del genere, che giunse a tardissima vecchiaia e, pur sfuggendo alla morte, si allontanò dagli uomini in qualche altro modo: ma ho sentito da uno che vi si recò per commercio che viveva a Temesa anche ai miei tempi. Questo ho appreso, ma quello che so è perché mi sono imbattuto in un dipinto, che era imitazione di un dipinto antico: c’era il giovinetto Sibari e il fiume Calabro e la fonte Lica, e tra loro il demone che Eutimo scacciò, di pelle nerissima e terribile al massimo nell’aspetto, e si copriva di pelle di lupo; l’iscrizione posta al di sopra riferiva il nome Lica.” Queste ultime righe del passo sono controverse sotto l’aspetto testuale. Secondo altre letture, si darebbe il nome con cui veniva venerato il demone, Alibante, che significa “uomo morto”. La lezione Lica ha fatto pensare, certo con troppa abilità di congettura, ai Lucani. Eutimo era dunque figlio di Asticle di Locri Epizefiri, ma gli stessi conterranei credettero o vollero credere fosse figlio del fiume Cecino. Ma questo fiume, ricordato anche da Tucidide, III, 103, era tra Locri e Reggio, e non, come vogliono arbitrariamente alcuni, il nostro Ancinale. Eutimo vinse anche nel 468 e nel 464, una carriera lunga e gloriosa, e bastante ad elevarlo al rango di eroe nel senso umano di combattente ed atleta valoroso. Gli venne eretta una statua, opera di Pitagora. Strano, questo combattimento di un uomo vivo con il fantasma di un morto. Ma dell’esistenza storica dell’atleta, qualora se ne dubitasse, è sufficiente testimonianza l’iscrizione, conservata nel Museo di Olimpia, che recita: “Io, Eutimo di Locri figlio di Asticle, tre volte vincevo le gare olimpiache. Io, Eutimo di Zefirio, la dedicai. La fece Pitagora di Samo.” Che un atleta vivo abbia combattuto contro l’ombra di un antichissimo eroe, mostra la natura non letteraria, ma viva del mito presso i Greci. Un atleta di tale forza e coraggio (ricordiamo che il pugilato antico era assai più duro di oggi, spesso mortale), poteva facilmente venire assimilato agli eroi primigeni del popolo ellenico, Ercole Teseo Piritoo..., o forse a qualche antenato semidivino dello stesso Eutimo. Anche la sua lunghissima vita, fino ai tempi di Augusto!, è segno di un culto che forse veniva praticato in Tempsa da una confraternita di più o meno genuini discendenti del valoroso locrese. Eutimo, per andare da Locri a Temesa, passò certamente lungo il dromos che da Reggio portava a Taranto, poi attraversò l’Istmo. Forse le folle delle città costiere lo accolsero e lo acclamarono, e qualche poeta dei nostri borghi compose inni per lui. |