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Data: 31/12/2006 - Anno: 12 - Numero: 4 - Pagina: 44 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

“U cIUccIALòRU”

Letture: 1224               AUTORE: Mario Ruggero Gallelli (Altri articoli dell'autore)        

Nelle sere piovose d’inverno l’unico rumore che si sentiva fuori l’uscio era quello dell’acqua proveniente dal precario tetto che, pur mal sopportando l’enorme mole, riusciva a smaltirla per mezzo de’ cannàla e da questi giù negli stretti vicoli. La mattina ancora la stessa musica. Mentre u Tata, il Papà, aprendo na faramìda, una fessura, della sgangherata finestra, rassegnato esclamava: “è sciròccu e levànti!”, la mamma dolcemente sussurrava: “il cattivo tempo dura a lungo, o tri, o sei, o nova”, e si inerpicava sulla cigolante scala che portava ahr1u salàru, al sottotetto, per accendere il fuoco e riscaldare a cucìna, la minestra, rimasta la sera prima.
Ma come si sa, lo scirocco rende la legna umida e l’accensione difficile e lenta, perciò la mamma, con gli occhi gonfi di fumo, andava a cercare u ciuccialòru che il papà aveva preparato per poter soffiare sul fuoco a distanza favorendo così la celerità dell’accensione.
La ricerca, però, spesso aveva esito negativo: il più piccolo dei figli l’aveva rilevato e utilizzato per giocare.
U ciuccialòru da attrezzo casalingo si trasforma in strumento di gioco. Un pezzo di canna lungo 30-40 centimetri, liberato dalle slabbrature all’altezza dei nodi, veniva reso perfettamente liscio nelle sue pareti interne.
Per dare vita al gioco occorreva fornirsi di strisce di carta larghe 3-4 centimetri e lunghe 10-12. Queste potevano essere reperite dall’unico fornitore possibile: la cartella di scuola, dove erano depositati i due quaderni, uno a righe e l’altro a quadri, dalla copertina rigorosamente nera, che i nostri genitori compravano da don Ernesto Saraco, e che consegnavano a noi dopo aver numerato le pagine per tamponare in qualche modo l’emorragia di fogli. Quasi sempre si ignorava quello stratagemma, incuranti dei castighi, anche pesanti, che si rischiava di subire. Recuperate le strisce se ne avvolgeva una a forma di cono e si realizzava così u chjumbìnu (proiettile): dopo averne incollato con la saliva l’estremità, inumidita la punta, questo veniva infilato nel cannòlu. Tutto era pronto, bastava soffiare con forza per farlo fuoriuscire con velocità e appiccicarlo sull’obiettivo preso di mira. Il bersaglio più ricercato era la piattìna della pubblica illuminazione dove decine di chjumbìni pendevano, fino a quando il vento non li portava con sè, ma venivano prontamente rimpiazzati con altri e altri ancora.


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