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Data: 31/12/2009 - Anno: 15 - Numero: 3 - Pagina: 7 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

PROCESSATI PER OMICIDIO NEL 1844 A CATANZARO DUE BADOLATESI

Letture: 1290               AUTORE: Marziale Mirarchi (Altri articoli dell'autore)        

Martedì 13 agosto 1844, su segnalazione del pastore Antonio Garrette, marito della vittima, è
stato rinvenuto il corpo esanime di Caterina Lucifero. Sul cadavere, “attaccato pensolone (sic) ad
un tronco di Elce che si trovava nell’inaccessibile china del burrone Rignello”, erano presenti
diverse ferite prodotte da oggetti contundenti (“simili a rovescio di scure o di zappa o bastone”) e
una profonda lesione alla testa che, per i periti settori, avrebbe causato il decesso della sventurata.
Macchie di sangue erano presenti su gonna e camicia (“che formavano tutto il suo vestimento”)
e, dallo stato di evidente putrefazione della salma, si è stabilito che la morte della donna era
avvenuta almeno due giorni prima. Macchie di sangue (“smunte” perché in precedenza “lavate con
acqua ”) sono state anche osservate sul “lastricato” della prima stanza e sul “mattone” della porta
d’ingresso della “casina” del fondo Soglia (2) ed hanno consentito agli inquirenti di ipotizzare che,
dalla casa colonica, il cadavere della Lucifero “fu trasportato fino all’estremità della rupe e
quindi precipitato” nel burrone sottostante. È così maturata la convinzione che la morte della
malcapitata non poteva attribuirsi alle conseguenze di una rovinosa caduta accidentale ma, più
verosimilmente, alla consumazione di un barbaro omicidio di cui si doveva ricercare l’autore.
Il giovanetto Pietro Mirarchi, Maria Ferrajolo e le sue figlie Vittorianna e Rosa Procopio hanno
riferito che, la mattina di domenica 11 agosto, avevano visto Domenico Cunsolo fu Pasquale,
bracciale di anni 44, armato di scure, dirigersi “verso il fondo Soglia, seguito dalla moglie visibilmente
rattristata”. Nella stessa direzione si è più tardi avviato Francesco Squillacioti fu Antonio,
sarto di anni 27, armato di schioppo. Dopo qualche ora i tre sono tornati al Paese nello stesso
ordine dell’andata. Ma Rosa Procopio ha anche dichiarato che, “essendosi situata col Mirarchi
nelle mura di S. Francesco…, da quel luogo avea veduto - in un quadrato della vigna Soglia,
vicino al casino - Cunsolo e Squillacioti battere e stramazzare una donna che, alla voce, conobbe
essere la Lucifero”. La stessa Procopio non ha saputo fornire notizia alcuna sugli strumenti usati
dai due “compari” per infliggere le percosse mentre Mirarchi ha precisato che Cunsolo si è
avvalso della scure e Squillacioti ha usato “la bocca e il piede dello scoppio, i suoi colpi dirigendo
alla testa”. Sulla scorta delle circostanziate testimonianze dianzi riportate, Cunsolo e
Squillacioti sono stati tratti in arresto e rinviati a giudizio con la gravissima imputazione di
omicidio volontario premeditato; le loro responsabilità si sono però notevolmente affievolite
durante il dibattito nell’aula giudiziaria per via delle ampie ritrattazioni fatte dai principali
testimoni d’accusa e per i chiarimenti venuti da autorevoli testimoni prodotti dalla difesa. Il
consorte e le figlie dell’uccisa hanno asserito che la loro congiunta “si era partita di casa il
giorno di sabato dieci per raggiungere il marito nella montagna ove custodiva pecore, ma colà
non era pervenuta”. La Corte ha acclarato: “Or nello stesso giorno di sabato, Cunsolo portò in
casa del suo padrone Piretto una quantità di uva muscatella dicendo avere quella tolta alla
Lucifero da lui sorpresa nell’attualità che raccoglieva nel fondo Rignello ed una lacera tovaglia
da testa di donna alla stessa appartenente pure portò in prova dell’esserla sorpresa. Confessava
simultaneamente che l’aveva percossa col dorso della scure e che inseguendola, per una pietra
che le scagliò, quella cadde precipitandosi dalla rupe, avendola colpita tra testa e spalle”.
Don Tommaso Piretto ha poi affermato che domenica 11 agosto, avuta notizia della presenza
nel fondo Soglia di tre persone estranee, ha mandato in perlustrazione il Cunsolo che è stato seguito
dalla moglie, assai preoccupata per il sospetto di possibili violente ritorsioni contro il coniuge, reo
del pestaggio del giorno precedente. Su incarico del signor Piretto anche Francesco Squillacioti,
armato di schioppo, si è portato in Soglia per rendersi conto di cosa stesse succedendo. Ecco dimostrato
quanto inattendibile fosse la teste Rosa Procopio (“donna di licenziosa vita”) che sosteneva
essersi verificato il cruento scontro nel giorno della “pacifica spedizione” dell’11 agosto, versione
questa smentita pure da Raffaele Pace ed Antonio Bressi che “verso l’ora di mezzogiorno di
sabato furono spettatori delle percosse che il solo Cunsolo dava con la scure alla Lucifero, che lo
ingiuriava, inseguendola verso il luogo ove di poi fu ritrovata estinta, e non eravi Squillacioti il
giorno di sabato”.
Esclusa la premeditazione, l’omicidio è stato derubricato in morte seguita entro quaranta
giorni dalle lesioni riportate in rissa scatenata, per giunta, dalla vittima.
Con sentenza del 7 giugno 1845 la Gran Corte Criminale di Calabria Ulteriore 2ª (composta
da: don Gaetano Grimaldi, 1° giudice-presidente; giudici ordinari: don Emmanuele Cammarata,
don Salvatore Pinto, don Cristofaro Gramignani e don Nicolantonio Paola; don Gaspare Guzzo,
giudice civile supplente; don Giuseppe Oliva, procuratore generale del Re; don Tommasantonio
Primavera, cancelliere) ha condannato Domenico Cunsolo alla pena di sette anni di ferri nel
presidio, alla malleveria di ducati cento per i successivi tre anni, alle spese di giudizio e
all’allontanamento dal domicilio degli offesi nella distanza non minore di miglia trenta “fino a che
non abbia ottenuto il loro contentamento”. La G.C.C. ha altresì ordinato “che Francesco
Squillacioti sia messo in libertà assoluta”.


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