Data: 31/12/2009 - Anno: 15 - Numero: 3 - Pagina: 28 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
LA STORIA DI UNA FAMIGLIA DI SATRIANO |
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AUTORE: Francesco Misitano (Altri articoli dell'autore)
(Prendiamo nota ancora una volta di come la lettura de “La Radice” inneschi processi di accostamenti, riferimenti e intrecci che ampliano, talvolta anche notevolmente, l’assunto di chi scrive. Ci riferiamo questa volta all’articolo che segue, stimolato, come vi si legge, da altro del professore Barbuto sul recente libro di Giulio De Loiro. L’amico avvocato Misitano trova in quell’articolo suoi antenati, ne scrive per “La Radice”, e, su don Giovanni Battaglia in particolare, scrive un pezzo che abbiamo letto con piacere sull’ultimo numero di “Calabria Sconosciuta” (pag. 65), rivista che riteniamo la più interessante tra quelle calabresi che noi conosciamo.)
Leggendo su La Radice del 31 agosto 2009, n. 2, pag. 26, la relazione tenuta dal prof. Antonio Barbuto in occasione della presentazione del libro Gente nostra di Giulio De Loiro, mi sono imbattuto nei nomi Peppino Chiaravalloti, Michelinuzzo Battaglia e Mariella Battaglia, che mi hanno richiamato alla memoria i miei trisavoli, da parte materna, Domenico Battaglia ed Elisabetta Chiaravalloti, entrambi di Satriano, come le persone testé nominate. Elisabetta Chiaravalloti, figlia di Pietro e di Rosa Battaglia, era nata nel 1797 e morì a Caraffa (del Bianco) il 24/9/1857. Domenico Battaglia, di cui non si conoscono i dati anagrafici, era fabbro e tintore di stoffe. Avevano quattro figli: Francesco, Antonio, Giovanni e Caterina. Negli anni Quaranta del sec. XIX (1800) entrambi si trasferirono con la famiglia a Caraffa (del Bianco), in provincia di Reggio Cal., per ragioni di lavoro, e lì Domenico Battaglia continuò la sua professione di fabbro ed anche di tintore, coadiuvato in questa professione dalla moglie e dai figli man mano che crescevano. Il figlio Giovanni (Satriano 1835 - Caraffa del Bianco 11/5/1916), fabbro come il padre, si era specializzato nella fabbricazione di roncole e ronchetti. Il 17/5/1860 sposò la vedova caraffese Anna Maria Iofrida (20/12/1829 - 29/10/1916) che gli diede cinque figli: Elisabetta, Francesca Cecilia, Domenico, Giuseppe e Caterina. Domenico (5/2/1865 - 16/11/1942) entrò a sette anni nel seminario minore di Gerace, studiò poi teologia e nella notte di Natale del 1890 fu ordinato sacerdote dal vescovo Francesco Saverio Mangeruva. Per sette anni insegnò nello stesso seminario ed il 25 luglio 1897 gli fu assegnata, dopo regolare concorso, la parrocchia di S. Maria degli Angeli in Caraffa del Bianco, che resse fino al settembre del 1942. Giuseppe, suo fratello (6/10/1867 - 12/11/1923), studiò giurisprudenza e, vinto il concorso per notaio, esercitò questa professione nella piazza del suo paese di nascita, Caraffa del Bianco. Il primo figlio, Francesco, di Domenico Battaglia ed Elisabetta Chiaravalloti (Satriano 1832 - Caraffa 25/9/1861) entrò nel convento del Crocefisso di Bianco (RC) retto da padri francescani dell’ordine dei riformati, studiò teologia e, ordinato sacerdote, rientrò nel convento di origine, a Bianco. Nel 1861 Francesco II di Borbone, esule a Roma, inviò in Calabria il generale catalano José Borjes con un gruppo di armati, chiamati poi spagnoli per la presenza in esso, oltre al capo, di alcuni elementi di nazionalità spagnola, onde prendere contatti con notabili filoborbonici. Don José sbarcò a Brancaleone (RC) il 13 settembre e si diresse verso Platì, dove intendeva incontrarsi col brigante Ferdinando Mittiga. Cammin facendo il 15 settembre passò dal convento del Crocefisso. Qui, nel pomeriggio, il superiore, padre Samuele da Siderno, lo diresse verso Natile, per essere lì presentato al notaio Girolamo Sculli e a Francesco Violi di Platì. Ma prima di partire, Borjes fece un salto a Sant’Agata (del Bianco) per avere un colloquio col nuovo sindaco di fede borbonica, Giuseppe Franco, figlio del barone don Amato, che qualche tempo prima il brigante Mittiga aveva messo a quel posto in sostituzione del savoiardo Francesco Rossi. La reazione governativa piemontese a questa spedizione fu immediata. Infatti il 20 settembre il gen. De Gori sbarcò nei pressi di Bianco con un’armata di bersaglieri ed affidò la missione del rastrellamento dei sovversivi al maggiore Rossi, cugino del sindaco deposto di Sant’Agata. A Bianco venne arrestato il sac. don Antonio Franco, fratello del Barone don Amato, e quindi trascinato fino al convento del Crocefisso, dove fu fucilato davanti all’ingresso del monastero. I monaci nel frattempo avevano abbandonato il convento onde cercar rifugio nei paesi vicini. I Piemontesi, trovandolo vuoto, lo incendiarono. Il primo dei monaci fuggiaschi (forse il padre guardiano) venne rintracciato in contrada Gnura Elena del Comune di Caraffa ed abbattuto in un agrumeto. A Caraffa venne scovato nel suo nascondiglio il ventinovenne padre Francesco Battaglia e condotto dietro l’abside della chiesa parrocchiale per essere fucilato. Padre Francesco, prima di morire, chiese di vedere la nipotina di cinque mesi, Elisabetta Battaglia, figlia di suo fratello Giovanni e mia nonna. Il desiderio gli fu appagato e lui, presa la bambina sulle braccia, la baciò e la benedisse; poi, riconsegnatala ai parenti, si girò ed i carnefici lo fulminarono alla schiena con una scarica di pallottole. Suo fratello Giovanni sfuggì alla cattura poiché si era rifugiato e nascosto, per circa un mese, in una stalletta per maiali (furnegliu di porci). A Sant’Agata, poi, ci fu un’ecatombe. Davanti al palazzo baronale furono fucilati il figlio del Barone, Giuseppe Franco, ch’era stato posto sul trono di sindaco dal brigante Mittiga, e cinque altri suoi domestici e mezzadri; altri vennero fustigati a sangue con l’imposizione di gridare ad ogni colpo di nerbo: “Viva Vittorio Emanuele! Viva l’Italia! Abbasso i Borbone! Morte a Mittiga!” Infine fu prelevato, in contrada Cannavia del Comune di Sant’Agata, Antonio Zappia, e fucilato a Caraffa nei pressi della chiesetta della Madonna delle Grazie. L’altro figlio del barone don Amato, Giovanni, riuscì a fuggire, come si dice, imbottito in un materasso spedito a un cardinale a Roma con la nave Pagliara, ancorata nei pressi di Bianco. Era il 25 settembre 1861. I Piemontesi ripulivano così dai loro avversari le terre liberate (non occupate!) del Regno di Napoli! Per altri episodi di orripilante memoria vedi La mala unità di Salvatore Scarpino, 1985, Effesette, Cosenza. Circa Caraffa e Caraffa del Bianco vorrei chiarire che questo paese si chiamò Caraffa fino al 1864, quando gli fu aggiunta la specificazione del Bianco in forza del regio decreto dell’8 maggio, n° 1795, per distinguerlo da un altro omonimo paese in provincia di Catanzaro cui era stata applicata l’anno precedente, per lo stesso motivo, con regio decreto del 18 giugno, n° 1427, la specificazione di Catanzaro. Senden in Vestfalia, li 3 novembre 2009 |