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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2013 - Anno: 19 - Numero: 3 - Pagina: 19 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

UNA MATTINA DI INVERNO UN FINGITORE, OHPS!... UN FUGGITORE.

Letture: 1326               AUTORE: Antonio Tropiano (Altri articoli dell'autore)        

«Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità:
l’andatura di cappa (…) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare
in poppa e un minimo di tela. La fuga spesso, quando si è lontani dalla costa, è il solo modo di salvare
barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle
acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria
fortuna di poter seguire la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione». (Henry
Laborit, Elogio alla fuga)
Capita talvolta, e tutti credo ne abbiano avuto prova, che la nostra memoria ci disponga,
apparentemente in maniera casuale e disordinata, una serie di ricordi o frammenti di
immagini che nulla sembrano avere in comune, fin quando il Caso non si decide a fornirci
la giusta trama con cui intrecciarli («[…] Vino, insegnami come vedere la mia storia/
quasi fosse già fatta cenere di memoria» J. L. Borges). È quanto mi è capitato qualche
giorno addietro, quando, affaccendato nel vigneto sotto un sole insolitamente caldo,
fui travolto da una stravagante coppia di pensieri vagolanti, che a guisa di naufraghi in
una indistinta peregrinazione mi si fecero appresso con impeto e meraviglia. Del primo
mi fu facile coglierne la connessione, trattandosi del ricordo di una chiacchierata con
mio nonno in occasione della quale, interrogatolo sulle prolungate libagioni che un
tempo scandivano i lavori di mietitura, pensai di anticiparne la risposta dicendo: «Per
scampare alla calura e alla fatica?» e lui di rimando «Puru! Ma soprattuttu adu penzeri
da calura e da hfatiga». Dell’altra reminescenza impiegai non poco a rintracciarne la corrispondenza:
mi tornò in mente il celebre episodio della fuga di Tolstoj dalla casa natale
e della sua morte nella stazioncina di Astopovo. Rammentai di aver letto da qualche
parte che quella mattina in cui maturò l’idea di allontanarsi dalla moglie si premurò di
incaricare il suo medico personale, e compagno di ventura, di procurargli come viatico
per il viaggio una buona scorta di bottiglie di vino. Quella curiosa sequenza di rievocazioni
mi lasciò all’inizio perplesso, ben presto però compresi che quei refoli di memoria
si erano inaspettatamente accostati per narrarmi con una lingua bizzarra nient’altro che
una vicenda di evasione: allora i pensieri si assieparono, e dovendo alacremente prepararmi
alla mia prossima facezia, decisi di rendervene conto, fingendo di dare un ordine
ad un riflusso di coscienza che giusto nel disordine si qualifica per costume e regola.
«Il vino è nemico dell’uomo e chi fugge davanti al nemico è un vigliacco» ebbe a scrivere
qualcuno che di sottrarsi al calice non nutrì mai alcuna intenzione (neanche fosse stato lui in
ginocchio nell’Orto degli Ulivi!); al contrario in molti, per secoli, pur di disertare la propria
condizione di asservimento, avrebbero volentieri rinunziato pure a «quel vino nelle giornate
della montagna come fuoco dissetante, poveri ed eterni poppanti di mandra» (Corrado
Alvaro, Gente in Aspromonte).
Mi vien fatto di pensare che tutto ebbe principio come sempre con l’arguto Ulisse, che si
ingegnò di scappare dall’antro di Polifemo mescendo per l’appunto copiosa bevanda: «Del
soave licor prese diletto/ E un’altra men chiedeva/ [… ] Un’altra volta io gli stendea la
coppa./ Tre volte gliela stesi; ed ei ne vide/ nella stoltezza sua tre volte il fondo» (Odissea IX,
451-62). Sono secoli che a ben guardare i classici ci invitano a sollevarci dalle inquietudini e
dai tormenti del vivere indugiando nel balsamico sopore dell’«ardito nettare»: fu così per il


suadente Alceste, per l’avvinazzato Anacreonte, o l’iperbolico Pindaro. Su quante bocche
passò quel passo dell’Ars amatoria di Ovidio che recita «…nel molto vino ogni penar si stempra,…
e dalla fronte fugge ogni ruga, ogni affanno, ogni dolore […]» (I, 237-240); e chi non
si è sentito scaldare il cuore leggendo il carme che Orazio dedicò a Taliarco? «Dissolvi il freddo
nutrendo la fiamma con larga provvista di ceppi e senza risparmio attingi puro vino di
quattro anni,…Il resto, rimettilo in mano agli dei» (Carmina I, 9).
Il vino però non è solo un rimedio («ogni volta che manca però si rendono necessarie
le medicine» [Talmud]), così come la fuga non è soltanto un sottrarsi o un rifugiarsi, ma
muta in un avanzamento verso un altrove ignorato, dove l’abisso geografico non è di certo
il più oscuro. Fallace impresa, infatti, è scampare all’eruzione di antiche pulsioni, specie
quando esse riemergono nell’animo ebbro: «Per l’effetto del vino, quella parola offensiva
(…) mi cacciò nell’animo un desiderio veramente irragionevole di vendetta» (La coscienza
di Zeno). Lo aveva capito l’abile Boccaccio, che in certuni individui la «piacevolezza
del beveraggio» solletica il prurito di ogni licenziosa fregola: «più calda di vino che di
onestà temprata» la sventurata Alatiel non avrebbe potuto strappare i lacci del suo profittatore
(II, 7); né per infinocchiare un marito geloso si potrebbe ancora far meglio di donna
Ghita (VII, 4). Specchio distorto di una mancata evasione, il «soave licor» ora è prigione,
ora invece libertà.
Il tempo della mia parola già si fugge tuttavia, prima che vi abbia raccontato il gesto
del piccolo Gesù del Mantegna che, non potendo sottrarsi al proprio destino, mangia un
grappolo d’uva che ne prefigura il sacrificio (vedi Madonna col Bambino). In anticipo pure
sul desiderio di leggere insieme a voi negli occhi della Mezzana di Vermeer il coraggio di
slegarsi dal sordido abbraccio del lenone, o di scoprire che il Bacco di Velazquez si è frattanto
liberato della masnada plebea che gli fa corona. Ma il tempo tiranneggia sempre sulle
storie, e del resto io stesso non saprei essere garante del mio racconto, se non fosse che ad
ascoltare Pessoa ho finito per fingere che tutto sia andato davvero in quel modo in cui davvero
è andato.
Giusto per essere precisi, vi dirò che non ho alcuna notizia delle bottiglie di Tolstoj, in
compenso so per certo che si spense regalandoci una delle battute meglio riuscite nella storia
della letteratura: «Bisogna svignarsela!». Da par suo, invece, mio nonno non affidò alcuna
parola all’ultimo respiro; poco prima di entrare in coma però, vedendoci raccolti al suo capezzale
aveva pronunciato una formula che da sempre in quella casa annunziava l’arrivo di un
avventore: «ma vinu nd’avimu?». Quel suo inconsapevole commiato dalla logica del mondo
mi sembrò un verso perfetto, il puntuale arrivo di una chiusa a una lirica in cerca di termine.
Ripensandoci oggi, dopo qualche anno, non saprei dire se quel familiare sottrarsi all’imbarazzo
della povertà, senza venir meno ai precetti di accoglienza, non fosse che un artifizio della
vita a dileggio dell’incombente Parca, ma senza alcuna approssimazione emotiva posso affermare
di aver appreso in quegli istanti che ognuno custodisce il proprio modo di fingere, ognuno
il proprio modo di fuggire.
Si cu’ fuja resta fujutu
e cu’ ferma fuja restandu
ogni vinu chi fuja nto mbutu
nte na gutti av’u vacia fermandu.
Ma si ferma u momentu e fujira
o già tempu fujend’on ci resta
una cosa sula vor’ dira:
ca u catoju su caccia da testa!
* * *
Si ta fuji pe’ fujira
e non resti pe’ restara,
esta comu si chi pira
ti mentissi a vindignara!
Ma s’imbeci u vai, ti fermi
e restasti ca partivi,
on t’accorgi ca già i vermi
si mangiaru i mejju alivi!
Sulu quando parti e resti
ca trovasti o pe’ trovara,
ti’nd’accorgi ca pe’ festi
giust’u vin’on po’ mancara!
Saluti!




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