Data: 31/12/2013 - Anno: 19 - Numero: 3 - Pagina: 19 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
UNA MATTINA DI INVERNO UN FINGITORE, OHPS!... UN FUGGITORE. |
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AUTORE: Antonio Tropiano (Altri articoli dell'autore)
«Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa (…) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga spesso, quando si è lontani dalla costa, è il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione». (Henry Laborit, Elogio alla fuga) Capita talvolta, e tutti credo ne abbiano avuto prova, che la nostra memoria ci disponga, apparentemente in maniera casuale e disordinata, una serie di ricordi o frammenti di immagini che nulla sembrano avere in comune, fin quando il Caso non si decide a fornirci la giusta trama con cui intrecciarli («[…] Vino, insegnami come vedere la mia storia/ quasi fosse già fatta cenere di memoria» J. L. Borges). È quanto mi è capitato qualche giorno addietro, quando, affaccendato nel vigneto sotto un sole insolitamente caldo, fui travolto da una stravagante coppia di pensieri vagolanti, che a guisa di naufraghi in una indistinta peregrinazione mi si fecero appresso con impeto e meraviglia. Del primo mi fu facile coglierne la connessione, trattandosi del ricordo di una chiacchierata con mio nonno in occasione della quale, interrogatolo sulle prolungate libagioni che un tempo scandivano i lavori di mietitura, pensai di anticiparne la risposta dicendo: «Per scampare alla calura e alla fatica?» e lui di rimando «Puru! Ma soprattuttu adu penzeri da calura e da hfatiga». Dell’altra reminescenza impiegai non poco a rintracciarne la corrispondenza: mi tornò in mente il celebre episodio della fuga di Tolstoj dalla casa natale e della sua morte nella stazioncina di Astopovo. Rammentai di aver letto da qualche parte che quella mattina in cui maturò l’idea di allontanarsi dalla moglie si premurò di incaricare il suo medico personale, e compagno di ventura, di procurargli come viatico per il viaggio una buona scorta di bottiglie di vino. Quella curiosa sequenza di rievocazioni mi lasciò all’inizio perplesso, ben presto però compresi che quei refoli di memoria si erano inaspettatamente accostati per narrarmi con una lingua bizzarra nient’altro che una vicenda di evasione: allora i pensieri si assieparono, e dovendo alacremente prepararmi alla mia prossima facezia, decisi di rendervene conto, fingendo di dare un ordine ad un riflusso di coscienza che giusto nel disordine si qualifica per costume e regola. «Il vino è nemico dell’uomo e chi fugge davanti al nemico è un vigliacco» ebbe a scrivere qualcuno che di sottrarsi al calice non nutrì mai alcuna intenzione (neanche fosse stato lui in ginocchio nell’Orto degli Ulivi!); al contrario in molti, per secoli, pur di disertare la propria condizione di asservimento, avrebbero volentieri rinunziato pure a «quel vino nelle giornate della montagna come fuoco dissetante, poveri ed eterni poppanti di mandra» (Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte). Mi vien fatto di pensare che tutto ebbe principio come sempre con l’arguto Ulisse, che si ingegnò di scappare dall’antro di Polifemo mescendo per l’appunto copiosa bevanda: «Del soave licor prese diletto/ E un’altra men chiedeva/ [… ] Un’altra volta io gli stendea la coppa./ Tre volte gliela stesi; ed ei ne vide/ nella stoltezza sua tre volte il fondo» (Odissea IX, 451-62). Sono secoli che a ben guardare i classici ci invitano a sollevarci dalle inquietudini e dai tormenti del vivere indugiando nel balsamico sopore dell’«ardito nettare»: fu così per il
suadente Alceste, per l’avvinazzato Anacreonte, o l’iperbolico Pindaro. Su quante bocche passò quel passo dell’Ars amatoria di Ovidio che recita «…nel molto vino ogni penar si stempra,… e dalla fronte fugge ogni ruga, ogni affanno, ogni dolore […]» (I, 237-240); e chi non si è sentito scaldare il cuore leggendo il carme che Orazio dedicò a Taliarco? «Dissolvi il freddo nutrendo la fiamma con larga provvista di ceppi e senza risparmio attingi puro vino di quattro anni,…Il resto, rimettilo in mano agli dei» (Carmina I, 9). Il vino però non è solo un rimedio («ogni volta che manca però si rendono necessarie le medicine» [Talmud]), così come la fuga non è soltanto un sottrarsi o un rifugiarsi, ma muta in un avanzamento verso un altrove ignorato, dove l’abisso geografico non è di certo il più oscuro. Fallace impresa, infatti, è scampare all’eruzione di antiche pulsioni, specie quando esse riemergono nell’animo ebbro: «Per l’effetto del vino, quella parola offensiva (…) mi cacciò nell’animo un desiderio veramente irragionevole di vendetta» (La coscienza di Zeno). Lo aveva capito l’abile Boccaccio, che in certuni individui la «piacevolezza del beveraggio» solletica il prurito di ogni licenziosa fregola: «più calda di vino che di onestà temprata» la sventurata Alatiel non avrebbe potuto strappare i lacci del suo profittatore (II, 7); né per infinocchiare un marito geloso si potrebbe ancora far meglio di donna Ghita (VII, 4). Specchio distorto di una mancata evasione, il «soave licor» ora è prigione, ora invece libertà. Il tempo della mia parola già si fugge tuttavia, prima che vi abbia raccontato il gesto del piccolo Gesù del Mantegna che, non potendo sottrarsi al proprio destino, mangia un grappolo d’uva che ne prefigura il sacrificio (vedi Madonna col Bambino). In anticipo pure sul desiderio di leggere insieme a voi negli occhi della Mezzana di Vermeer il coraggio di slegarsi dal sordido abbraccio del lenone, o di scoprire che il Bacco di Velazquez si è frattanto liberato della masnada plebea che gli fa corona. Ma il tempo tiranneggia sempre sulle storie, e del resto io stesso non saprei essere garante del mio racconto, se non fosse che ad ascoltare Pessoa ho finito per fingere che tutto sia andato davvero in quel modo in cui davvero è andato. Giusto per essere precisi, vi dirò che non ho alcuna notizia delle bottiglie di Tolstoj, in compenso so per certo che si spense regalandoci una delle battute meglio riuscite nella storia della letteratura: «Bisogna svignarsela!». Da par suo, invece, mio nonno non affidò alcuna parola all’ultimo respiro; poco prima di entrare in coma però, vedendoci raccolti al suo capezzale aveva pronunciato una formula che da sempre in quella casa annunziava l’arrivo di un avventore: «ma vinu nd’avimu?». Quel suo inconsapevole commiato dalla logica del mondo mi sembrò un verso perfetto, il puntuale arrivo di una chiusa a una lirica in cerca di termine. Ripensandoci oggi, dopo qualche anno, non saprei dire se quel familiare sottrarsi all’imbarazzo della povertà, senza venir meno ai precetti di accoglienza, non fosse che un artifizio della vita a dileggio dell’incombente Parca, ma senza alcuna approssimazione emotiva posso affermare di aver appreso in quegli istanti che ognuno custodisce il proprio modo di fingere, ognuno il proprio modo di fuggire. Si cu’ fuja resta fujutu e cu’ ferma fuja restandu ogni vinu chi fuja nto mbutu nte na gutti av’u vacia fermandu. Ma si ferma u momentu e fujira o già tempu fujend’on ci resta una cosa sula vor’ dira: ca u catoju su caccia da testa! * * * Si ta fuji pe’ fujira e non resti pe’ restara, esta comu si chi pira ti mentissi a vindignara! Ma s’imbeci u vai, ti fermi e restasti ca partivi, on t’accorgi ca già i vermi si mangiaru i mejju alivi! Sulu quando parti e resti ca trovasti o pe’ trovara, ti’nd’accorgi ca pe’ festi giust’u vin’on po’ mancara! Saluti!
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