Data: 31/12/2016 - Anno: 22 - Numero: 3 - Pagina: 6 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Antonio Barbuto (Altri articoli dell'autore)
Nel primo dei quaranta e passa scatoloni che contengono, in rigoroso ordine cronologico, gli articoli di critica letteraria che già da studente all’Università di Urbino, andavo conservando, ci sono certamente, proprio in fondo un paio di articoli (forse ritagliati da “La Stampa” o da “Il Giorno”: i due quotidiani che leggevo all’epoca) che annunciavano la scoperta di un grande poeta sconosciuto: il calabrese Lorenzo Calogero. Per me, trapiantato felicemente nell’Ateneo montefeltresco, fu un colpo al cuore e appena uscito il primo volume delle Opere poetiche, 1962, presso l’editore Lerici lo acquistai alla mia solita libreria e lo divorai con furore, spesso non capendo niente e talaltra sottolineando a matita dei versi, moltissimi, che mi prendevano e persuadevano, e ancora sono lì a testimoniare le modalità di quella prima e giovanile lettura. Il secondo volume apparso qualche anno dopo -1966- non ebbe l’effetto dirompente della lettura urbinate, né questa recentissima fatta in vista dell’articolo per la rubrica su “La Radice”. Nei cinquanta anni intercorsi, ho riletto molto saltuariamente Calogero, in occasione della pubblicazione di un paio di antologie e di qualche studio sull’autore. Ma lo shock della prima volta non si è più ripetuto. Certo che è sempre legittimo storicamente parlare di un “caso Calogero”, ma è altrettanto vero che la vicenda umana del poeta di Melicuccà prende il sopravvento inevitabilmente sul valore autentico della sua poesia, come documentano alcune esaltate esagerazioni critiche di grafomani fan d’un ipotetico partito calogeriano. Per i quattro o cinque lettori di questa rubrica cercherò di essere il più possibile attento a non stravolgere i risultati poetici quando mi sembrano reali e restando lo stesso commosso di fronte alla povera condizione esistenziale del poeta. Certo che la storia di Calogero è senza dubbio destinata a suscitare una profonda pietas: fu, per dirla brutalmente, un uomo meno, inadatto a qualsivoglia forma di convivenza umana e civile, come dimostra l’esercizio di medico condotto in un paese della provincia di Siena. In una lettera Calogero confessa: “Ho capito, ormai, e da molto, che mi trovo in un mondo alquanto misterioso. Prima speravo che sarebbe finito e che sarei rientrato in una certa normalità di vita. Mi accorgo adesso, o meglio faccio la triste esperienza che quel tale mondo che avrei desiderato come una specie di normalità al mio genere di vita, a quella tal vita che mi sono costretto a vivere, non verrà più”. Una vita “deserta” in un luogo della terra senza la minima possibilità di dialogo, chiuso nel suo sogno pervicace di fedele della poesia che nonostante questa sua passione devastante non riesce a intrecciare relazioni culturali. Non fa che scrivere migliaia di versi e leggere poeti d’ogni risma e subire la prepotente influenza di quella poesia italiana e straniera che riusciva a leggere nonostante la separatezza che lo condannava alla solitudine senza rimedio. Giuseppe Tedeschi nell’appassionata e documentata introduzione premessa al primo volume disegna il tracciato della vita “inappartenente” a qualsiasi solidarietà, inabile alla vita di rapporti sia come medico che come intellettuale e come poeta riceve solo la comprensione di uno squisito poetaingegnere, Leonardo Sinisgalli, che scrisse una prefazione cortese e sincera al volume Come in dittici, pubblicato da Maia di Siena nel 1956, come le precedenti raccolte a proprie spese. (Un destino questo che perseguita anche oggi migliaia di facitori di versi succubi della proterva ambizione a credersi poeti). Nello scaffale di quei poeti calabresi, antichi e moderni che contano, della mia biblioteca, ci sono di Lorenzo Calogero i due volumi delle Opere poetiche, Come in dittici, Poesie a cura di Luigi Tassoni (1986), Itinerario poetico di Lorenzo Calogero di Giuseppe A. Martino (2003). Per quanto riguarda la critica sull’autore: il fascicolo “La Provincia di Catanzaro” (a. II, n. 4 1983), e il volume degli Atti della giornata di studio, Melicuccà 13 aprile 2004, Quale cultura Jaca Book 2004. Ricordo di aver letto a suo tempo Le sillabe arcane, Vallecchi 1988, di Caterina Verbaro che è la sua tesi di laurea discussa con Giorgio Luti all’Università di Firenze e che rimane, per me, lo studio più ragguardevole (ma che stranamente non trovo più, forse prestato a qualche allieva/o quando insegnavo alla “Sapienza”: è uno dei tre o quattro casi di libri non restituiti, ahimè!). In occasione della stesura del presente articolo, ho cercato invano di procurarmi l’antologia curata da Renato Meliadò, ed. Falzea di Reggio Calabria del 1996. Naturalmente ho riletto il profilo disegnato dal compianto Antonio Piromalli, lo storico più autorevole della letteratura calabrese di ogni epoca (quello di Marzorati e le pagine dedicate a Calogero nel secondo volume della sua storia della letteratura calabrese) e tenuto doverosamente presente per la sua qualità scientifica di storicizzare seriamente la vita e l’opera del poeta di Melicuccà. Queste cose che sono andato dicendo vogliono essere di contorno necessario alle considerazioni critiche più immediate con una breve parentesi che spiega possibilmente tutto: io penso che la poesia italiana del secondo novecento deve annoverare come esempi non minori le opere di Lorenzo Calogero e di Franco Costabile (per destino entrambi presenti in due numeri della rivista di Giancarlo Vigorelli “L’Europa letteraria” che negli anni sessanta soprattutto era garanzia di serietà e di prestigio culturale): due vicende tragiche e di autentica verità storica, e di poesia di ragguardevole valore. Ora proviamo a entrare nel merito fornendo qualche coordinata tematica e formale. Va subito sottolineato che da poesia nasce poesia, come certifica splendidamente la tradizione italiana. Nel caso di Calogero è altrettanto evidente il debito contratto con la poesia italiana d’alto bordo: Leopardi, Ungaretti, Montale, Pascoli per fare solo qualche nome. Ma sappiamo bene che dopo l’Odissea è materialmente impossibile essere originali. Nella poesia di Calogero gli echi della grande tradizione italiana sono visibili, come i critici più attenti hanno notato, e documentano le forme dell’apprendistato calogeriano, com’è giusto che sia. D’altra parte l’attrezzatura tecnica della sterminata produzione del poeta rivela, più dei calchi verbali, la capacità di usare gli strumenti del fare poetico (il greco poiein) con sufficiente perizia. I titoli e le date del primo tempo della poesia di Calogero sono: le poesie comprese alle pp. 111-123 di Dieci poeti, Milano, Centauro, 1935; Poco suono, Milano, Centauro, 1936; Ma questo, Maia, Siena, 1955; Parole del tempo che contiene le raccolte già pubblicate, con moltissime varianti rispetto alle prime stesure, Maia, Siena, 1956; Come in dittici, Maia, Siena 1956, con prefazione di Leonardo Sinisgalli. Questa ultima raccolta è la più riuscita poeticamente e costituisce, insieme ai Quaderni di Villa Nuccia il primo volume delle Opere poetiche a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi, Milano, Lerici, 1962. Come osserva Antonio Piromalli, la poesia di Lorenzo Calogero documenta “uno scacco esistenziale in un determinato momento storico in cui Calogero non ha trovato le condizioni di società e cultura per inserirsi nel mondo. Calogero ebbe dei grandi calabresi che lo hanno preceduto il sentimento dell’assoluto, della giustizia […] tendente anche in lui al platonismo alla metafisica intellettuale e sentimentale”. Si è accennato alle sorprendenti letture della poesia ermetica di cui non va considerato un epigono comunque, nonostante certe oscurità e peregrine elucubrazioni, e degli esponenti del simbolismo europeo. La sua “dissipazione di parole” è la prova provata della deficienza in lui della vita, l’impossibilità cioè di trovare l’espressione di un appagamento qualsiasi. Carmine Chiodo ha condotto un’analisi stilistica puntuale della poesia di Calogero sostenendo che “ogni elemento acquista un senso metaletterale, riceve valore simbolico e viene giustificato in rapporto a tutto il resto del verso o del componimento stesso[…] c’è una ricerca di senso che va al di là della lettera”. Lo studioso documenta con dovizia di citazioni l’armamentario retorico-stilistico di Calogero elencando allitterazioni, asindeti, chiasmi, ossimori, sinestesie etc. che prova “sia l’attento labor limae” sia la concezione “della poesia a configurarsi come flusso di coscienza, come l’insieme degli elementi di una corrente di pensiero che come tali, si susseguono in modo rapido ed immediato per assonanze, o anche per contraddizioni”. Quello che colpisce immediatamente nella vita e nell’opera di Calogero è la sua dedizione totale alla poesia, una scelta perentoria e unica consegnata ai cento e più quaderni manoscritti che oltre alle migliaia di versi contengono prose perlopiù di sapore filosofico che scandiscono le povere vicende biografiche. Tutto sommato viene spontaneo ricavare la convinzione che la massa di scritture dei quaderni stia lì a “proporsi come una sorta di modello esemplare del poeta che vive della sua poesia e nella poesia identifica le ragioni del suo esistere […] di affermare la legittimità dei suoi versi e di imporli all’attenzione del mondo delle lettere, mentre la sua stessa emarginazione diviene occasione di una tenace fedeltà all’arte, assunta alla dimensione del mito esclusivo e compensatorio del fallimento dell’uomo” (Scappaticci). Se da una parte questo comporta in Calogero una sostanziale mancanza di controllo critico, e dunque di qualsivoglia operazione a levare che è in ogni caso regola aurea, dall’altra, come osserva Lombardi Satriani, “la vicenda umana di Lorenzo Calogero appare emblematica di una certa condizione dell’intellettuale calabrese che sconta sino in fondo la perifericità che gli è stata inflitta, secondo una coerente logica urbanocentrica”. Il titolo del libro della Verbaro “le sillabe arcane” definisce emblematicamente le difficoltà che si incontrano a interpretare correttamente la poesia di Calogero. Vuoi per “la tormentata psicologia” che la sottende, vuoi per “la concezione della poesia come tensione all’altrove” che è il dato più decisivo dell’opera calogeriana che gemina il forte “irrazionalismo visionario” mediante parole-chiave come “più pure essenze”, “rare ignote distanze”, “mito abbagliante”, “solo per allontanamenti” che costituiscono il magma delle immagini e delle metafore. Lo stesso poeta nella Premessa a Parole del tempo avverte: “non so pensare ad alcuna cosa che tenda a realizzare un valore almeno complesso, se non completo, della vita, se non sia rischiarato dalla luce del passato”. Ma è evidente che in nessun modo Calogero “mira alla concretezza dell’esperienza empirica e al rinvio a fatti quotidiani” (Scappaticci). La vita è altrove proclamava Rimbaud esaltando il mito decadente della genialità come condizione di anormalità estraniante, come risposta dopotutto impotente alle lacerazioni del presente e alle inevitabili delusioni. Per questo non è azzardato considerare Calogero congeniale “al filone simbolistico e orfico visionario” che non finisce ancor oggi a provocare nel lettore una porzione rilevante di seduzione fascinosa di rapimento. Da ciò deriva anche l’assoluta mancanza di “riferimenti alla realtà storico-sociale: eventi come il fascismo, il conflitto mondiale, il dopoguerra sembrano essere passati senza sfiorare e lasciare tracce” (Scappaticci) nella vita e nell’opera di Calogero “che in lontananze remote/lontananze s’affissa” (Parole del tempo) che sono quelle dell’altrove, e di un “senso di assoluta soggettività” (Jacobbi) che esclude ogni altra presenza. Eppure il “tu” ricorre sovente, ma non è “un istituto” come in Montale. Però contiene un margine ampio di ambiguità tipicamente moderna e può rivolgersi a se stesso, alla donna, alla poesia, all’altrove, a congetture del pensiero e della fantasia, interlocutori comunque sempre assenti: “Sulle scogliere del sonno/ che tu ghermivi per sentirti accosta/più distante da me/col volo col fremito delle colombe” (Ma questo). Calogero ha chiara consapevolezza che la vita è esilio, limbo, vuoto, notte “sempre tento per celi capovolti/quelli fra cui trovarti” e quindi si riconosce con esattezza senza indulgenze: “Io sono uno strano mendicante/che chiede amore e parole,/sono un solitario emigrante/verso le terre della luna e del sole”. Non v’ha dubbio che la fuga dal reale e l’isolamento conseguente portano automaticamente il poeta “nel silenzio di vetro” pieno di sgomento e di “gridi gelidi”. “L’ipotetico “tu” calogeriano è solo un riflesso immaginario dell’io […] riducendo ogni cosa alla dimensione della propria interiorità e chiudendosi in un lungo e ininterrotto monologo” (Scappaticci) una sorta di “corrispettivo poetico” (Verbaro). Salvo poi quando nei Quaderni di Villa Nuccia, è storicamente accertato il suo innamoramento per una infermiera, la donna destinataria concreta di un vero e proprio canzoniere d’amore. Sono i Quaderni la produzione estrema di Calogero e l’amore verso una persona fisicamente vera scioglie apparentemente il gorgo interiore del poeta in un desiderio di colloquio “volevo appropriarmi della vita tua/e della tua vita cupa di cenere/o della solidità della carne”, e, come ha scritto Roberto Lerici, può configurarsi come “la nuova incarnazione del suo amore per la vita”. “Tu levigata eri nella tua veste dolcissima/nell’azzurra levità dello spazio/o in una veste amata/ perché di tutto in te tutto ritrovo”. “I motivi dell’amore angelico e senza speranza passano da una lirica all’altra ininterrottamente” (Piromalli) e la donna esiste in quanto espressione del vagheggiamento del poeta perché essa è sempre in una lontananza pressoché inattingibile “fuggitiva sopra l’acque/in un riverbero di rose” e quindi trasfigurata in immagini di sogno “Gli abiti e i vestiti. Dorme/chi ti sembrò più bello/e si confonde con gli aliti/del fiore del limone. Perciò vedesti/anche sicomori altissimi”. E se “questa orribile pena/è una deserta fanghiglia […] Sono un uomo che non ha domani/e la noia è simile alla mia” perché seppure “non saprò dirti addio” si affaccia inesorabilmente la consapevolezza “E quel che mi rimane/è un poco di turbine lento di ossa”. È ineluttabile in Calogero recitare un perenne assolo “Forse parlo da solo e con me solo//al fresco chiarore della notturna lampa”. E, infine, il tema dell’autodistruzione e della morte: “la morte m’innamora//amata amante/mi ama ancora”. Se pensiamo ai tentativi di suicidio del poeta, possiamo chiudere con questa sorta di epigrafe: “Ma non m’interessa più della vita/Oggi mi curo della morte./Fra poco e alla svelta morirò,/perché anche tu con me nel lago/verrai domani”. Sillabe “aspre come alberi spogli”. Il pensiero corre a Lucrezio, e all’altro cultore del suicidio da me amatissimo, Cesare Pavese, che è presente nel verbo dell’ultimo verso “verrai”, che riprende il titolo della celeberrima Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Lorenzo Calogero nacque nel 1910. Fu trovato morto nella sua casa, forse suicida, nel 1961. |