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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/04/2021 - Anno: 27 - Numero: 1 - Pagina: 6 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

FORTUNATO SEMINARA

Letture: 666               AUTORE: Antonio Barbuto (Altri articoli dell'autore)        

C’è una mezza pagina di Pietro Mancini che delinea con lucidità e chiarezza la situazione
sociale - nel significato più ampio del termine - dove la cultura e la letteratura calabrese novecentesca
(e non solo novecentesca) si origina fatalmente. Cito per comodità dei tre o quattro
lettori di queste mie righe. “La borghesia calabrese era la classe più arretrata di tutto il Mezzogiorno.
La Calabria, senza strade, senza ferrovie, senza approdi che facilitassero l’allargamento
dei traffici e dei mercati e l’incremento della ricchezza mobiliare era immobilizzata economicamente,
politicamente, socialmente. Non esisteva l’ombra di una borghesia capitalistica,
industriale e commerciale. Il palazzo e la parrocchia erano i baluardi dell’immobilità sociale.
Una santa alleanza che si infiltrava dovunque, financo nelle mura domestiche, protetta dalla
superstizione e dall’ignoranza. Una santa alleanza alla quale dava forza e prestigio l’autorità
dello stato mediante la caserma, la prefettura, il deputato, ascaro sempre al governo e servo del
signore e del prete. A tale cristallizzazione strutturale faceva riscontro una identica struttura
psicologica, fatta di vecchie usanze familiari e sociali, basate soltanto sul rispetto, sulla obbedienza
e spesso sul servilismo. In altri termini una società a perfetto tipo agrario, patriarcale,
alla quale purtroppo si tenevano legati economicamente e psicologicamente artigiani, operai
e contadini, cui era ignota una qualsiasi spinta rivoluzionaria. Questa immobilità e cristallizzazione
della società e dell’economia avevano la loro omologia culturale inevitabilmente nel
cosiddetto verismo e naturalismo ritardati e nel classicismo formalistico perpetuato nei seminari
e dalla fioritura di poeti in latino”.
In questo quadro delineato efficacemente si situa la formazione e l’attività dello scrittore
Fortunato Seminara secondo la scheda riprodotta nel risvolto di copertina del romanzo Donne
di Napoli nell’edizione Garzanti del 1953. Riporto nella sua interezza la schedina. “Nato a
Maropati nel 1903, iniziò gli studi in Calabria, frequentò il liceo a Pisa e quindi l’Università
a Roma e a Napoli, dove si laureò in Legge. Figlio di genitori contadini, fu il primo nel suo
villaggio a rompere la tradizione per cui soltanto i figli dei ricchi venivano avviati agli studi.
Cominciò a scrivere giovanissimo, ma poi distrusse tutti i suoi scritti. Ritornò più tardi al lavoro
letterario in seguito ad amare esperienze. Ha scritto parecchie opere di narrativa e di teatro
e ha collaborato a giornali e riviste […] dal 1932 risiede a Maropati in una casa di campagna”.
Aggiungo che Fortunato Seminara è morto nel 1984 a Grosseto.
Come è evidente, la schedina - presumo scritta dallo stesso autore - riproduce con esattezza
il ritratto umano e sociale dello scrittore che appartiene nei suoi dati estremi alla definizione
storica e culturale della sua regione.
In Seminara è esemplare - persino in quasi tutti i titoli dei suoi libri - la condizione di
fondo dell’uomo del Sud che si enuclea nel problema secolare del male storico che né la cosiddetta
unità d’Italia né il proseguo degli eventi storici sono riusciti a risolvere, vale a dire
il contrasto perenne tra lo status della proprietà terriera e quella dei contadini mai affrontata
adeguatamente dalla politica nelle sue varie e diverse rappresentanze. Sicché “questo sfasciume
pendulo sul mare”, secondo la stupefacente definizione di Giustino Fortunato, è ancora lì
immobile e incapace di riscatto. Il male storico secolare, con tutta la sua evidenza di retorica
populista, è denunciato da Seminara senza pietà in una pagina de Il mio paese nel Sud: “Vivere
onestamente, lavorare e sacrificarsi per i figli, non concedersi un minuto di riposo per arrivare
a questo. È giusto? Vi domando se è giusto. Gli rispondo che bisogna rassegnarci a ciò che
non è causato da nostra colpa e che evitare non è nostro potere, ma non si acquieta; insiste per
sapere se è giusto che un uomo patisca dolori non meritati. Non è giusto sicuro. Ma che fare?
Non si può fare nulla, dice. Così ragionate voi. Ma a lui il cuore gli brucia, la collera lo scuote:
alza il pugno e bestemmia. Non lo ascolta nessuno? Che importa. Ma non piega la fronte,
non si rassegna: è un uomo. Non so cosa rispondere e mi domando se ho qualche colpa nella
sventura di Campisi. Mi pare che tutti gli sguardi siano fissi su di me. Che colpa posso avere
io? Se ho commesso del male, sono pronto a riparare. Come posso aver cagionato la morte
della moglie di Campisi? Non la conoscevo; non è mai venuta a lavorare nelle mie terre; non
l’ho angariata né perseguitata; non le ho fatto torto. Posso essere incolpato della sua miseria e
delle sue sofferenze? Il contadino ricomincia: Un uomo lavora tutti i giorni come una bestia, e
non ha possibilità di curare la moglie ammalata. È giusto? Non ha danaro per pagare i funerali.
D’improvviso, uno che sta in fondo alla stanza grida: È un’infamia. Lavoriamo tutta la vita per
arricchire chi non fa niente. I nostri figli tremano di freddo e non hanno pane; e i figli dei ricchi
sono ben vestiti e meglio nutriti. Noi viviamo da disperati, e i ricchi godono e ci disprezzano”.
All’origine della vasta e varia produzione l’autore dichiara: “Mi domandai quali interessi,
quali passioni e anche aspirazioni agitassero nel nostro tempo la società meridionale, quali
fossero i fermenti profondi”.
Nella conclamata sua immobilità la Calabria avrà avuto una pur lenta trasformazione nei
riguardi dei miti cruciali dell’Ottocento: il brigantaggio col suo alone romantico, onore e
dramma dell’onore, la roba intesa come bisogno e lotta primordiale per sussistere. Non è che
siano scomparsi d’incanto, ma nella loro residua permanenza lo scrittore calabrese degli anni
Trenta doveva impegnarsi in maniera prioritaria di esaminarli e rappresentarli in modo diverso
“perché non erano uguali in un contesto sociale che pur nella sua arretratezza aveva risentito
dell’influsso di movimenti ideologici, di correnti rinnovatrici che avevano investito il mondo”.
Queste minime riflessioni comportano nell’attività dello scrittore la necessità di differenziarsi
dalla tradizione meridionale ottocentesca e passa mediante una scelta certamente innovativa
contrapponendo un Sud reale e scarno in evoluzione. A persone rassegnate o eroi romanticamente
ribelli si contrappongono persone coscienti dei propri diritti e decise di farsi valere.
Naturalmente Seminara sa che deve guardare con attenzione, oltre che a Bernari, a Pavese e
a Vittorini che promuovevano, in quegli anni, quegli scrittori americani che sono senza dubbio
propedeutici del neorealismo del dopoguerra, a Verga, Deledda, Alvaro, alla loro cosiddetta
meridionalità. Ma, pur riconoscendone l’importanza, Seminara si ritaglia un suo proprio spazio
attribuendo ai succitati autori l’attitudine al descrivere più che al rappresentare e ha netta
consapevolezza della sua diversità affermando che da Alvaro “la realtà è vista con la mediazione
del mito e della favola […] io l’ho vista e rappresentata in presa diretta e senza veli”.
Nei riguardi di Verga osserva che “il povero non avendo coscienza sociale, non può avere
prospettive e volontà di riscatto: si abbandona al destino ed è vinto […]. Per rappresentare con
realismo e verità la condizione degli umili Verga non ha avuto bisogno di suggerimenti di una
ideologia; gli è bastato guardarsi attorno e osservare la società, le sue ingiustizie, la sopraffazione
dei potenti sui deboli […]. Verga osserva i casi umani con distacco aristocratico: non
giudica, quindi non condanna, né assolve; solamente compatisce e compiange. L’impersonalità
è il canone del verismo”.
Il lettore è naturalmente libero di interpretare queste righe, comunque ho ritenuto di riferirle
per arrivare alla conclusione che prevede la dichiarazione della sua poetica, cioè di come
ha interpretato il suo essere scrittore. Afferma: “Se proprio qualcuno volesse ricavare dalle
mie opere una teoria estetica, io credo che si possa così compendiare: realismo e chiarezza,
chiarezza solare e mediterranea […]. Eccetto poche isole industriali, l’economia meridionale
è basata sull’agricoltura, la popolazione agricola forma la maggioranza e la civiltà è civiltà
rurale. La mia opera riflette questa civiltà, il mondo rurale è il mondo a me congeniale, è la
piega calda del terreno, in cui il seme della mia narrativa è caduto e ha fruttificato. Del resto
è stato il territorio lo scenario di tanta narrativa meridionale, anche se i protagonisti non sono
stati sempre contadini, ma pescatori, solfatari o briganti. Nella narrativa calabrese in particolare
si riscontra un dato costante: lo sguardo rivolto alla realtà circostante, uomini e ambienti,
con preferenza agli strati sociali più bassi. E ciò si spiega col fatto che la nostra realtà è stata
sempre così drammatica, da non lasciare alcuna illusione, da non permettere, come altrove,
alcuna attenuazione, né evasione”.
È senza dubbio vera l’osservazione di Piromalli che “in tutti i romanzi di Seminara c’è la
rappresentazione di una società meridionale paesana e contadina fatta da uno scrittore il quale
si serve del realismo per porre in primo piano, come personaggio amaro e dolente, il contadino
del Sud, sempre vinto, anche nel lento moto di rinnovamento”.



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