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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/03/2005 - Anno: 11 - Numero: 1 - Pagina: 9 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

Annotazioni e cifra culturale

Letture: 1298               AUTORE: Pino Carnuccio (Altri articoli dell'autore)        

(L’amico architetto Pino Carnuccio è da sempre vicino a “La Radice”, con idee, con stimoli, con suggerimenti, con collaborazione scritta: ricordiamo, tra gli articoli che portano la sua firma, lo Speciale del n° 3/1997, alle pagine 16 e 17. Ha voluto offrirci un suo interessante lavoro anche questa volta: leggiamolo con l’attenzione che merita.)

Era da poco apparsa su il “Berner Zeitung” la notizia che un piccolo paese della Calabria era stato messo in vendita.
Che con qualche migliaio di franchi svizzeri, si poteva acquistare una casa antica in un borgo, posto su una collina di fronte al Mare Jonio. Anche una radio di Berna riportò la notizia.
Numerose furono le lettere che giunsero al Comune, e, non pochi, spinti dalla curiosità, si precipitarono ad acquistare.
Uno di questi, fu tra i primi Svizzeri in assoluto, un medico che -incrociandomi a bordo della sua automobile lungo la strada provinciale che conduce al borgo- mi fece cenno di fermarmi, chiedendo di un architetto.
Un’ora dopo eravamo all’interno della casa, che di mattino aveva acquistato attraverso un’agenzia immobiliare, per prendere le misure e definire i lavori da farsi.
Appena aperto il cantiere, si scatenò una notevole curiosità sull’andamento dei lavori. Con gran disappunto, le persone che abitavano lì vicino, contestavano la scelta da me operata di conservare -ripulendo o restaurando- tutti gli elementi che appartenevano alla vecchia casa: i vecchi infissi di castagno, la pavimentazione costituita da mattonelle di cotto, le vecchie tegole, le travi dei solai e del tetto, d’essenza di quercia o di castagno.
Tant’è che un mese dopo, quando il medico svizzero tornò per verificare l’andamento dei lavori, un signore -vicino di casa- gli confidò che la sua casa era vecchia come prima. E il medico, di rimando, gli rispose “proprio come volevo”.
Passarono i giorni e i lavori continuarono e il vecchietto non si capacitava. A chiunque si trovasse di passaggio, che chiedesse curiosamente notizie sul nuovo proprietario della casa sentenziava in dialetto: “Quantu campai vecchju mu nda viju. L’architettu i futta i Svizzari: ‘nci caccia i cosi vecchi, ‘nci pulizza, ‘nci torna a mentira e ‘nci facia pagara pe nnovi. E u svizzaru è cuntentu!”
La sua casa, come tante intorno, era stata ristrutturata come “Diu cumanda”: soletti novi, finestre e balconi d’alluminio, pavimentazione di ceramica e via discorrendo.
Intanto le persone che venivano a visitare il borgo aumentavano, in maggioranza Svizzeri mandati da altri Svizzeri, che avevano già acquistato casa.
Non appena un’auto con a bordo cittadini elvetici parcheggiava nella piazza posta nella parte alta del paese, una mobilitazione generale di Badolatesi prendeva piede lungo il corso principale e le viuzze che da esso si diramano.
Giù, fino alla Iusuterra era un continuo passa parola. Qualcuno, con fare discreto, chiedeva agli avventori transalpini di visitare la propria casa, anche solo per vedere quant’era bella e nuova, (a loro modo ristrutturata). Altri ne proponevano direttamente l’acquisto.
A poco a poco il disappunto era diventato un vero e proprio sconcerto. La gente non si capacitava del fatto che gli Svizzeri erano disposti a spender quattrini per l’acquisto di vecchi “casalini”. E le case “acconzati” che mostravano con tanto orgoglio, non suscitavano la loro attenzione, neanche per una somma di denaro inferiore a quella con la quale erano disposti a pagare i “casalini”.
Un altro episodio significativo.
Un giorno un signore anziano incontrandomi, mi saluta e, in disparte, timidamente mi chiede: “Architettu, datu ca stati acconzandu casi vecchji, quandu cacciati i mattuni ’e lastracu on mi dati a mmia, pe ffavori, na decina e metri? Sapiti, mi servano pe u pavimentu do porcili. U porcu supa u cimentu scifula. Supa i mattuni ’e lastracu, ‘mbeci, si mova pulitu e s’aggiusta l’unghji.”
Le mattonelle di cotto, le tegole a coppi, travi stagionate, si riuscivano a reperire -oltre che dalle case stesse in corso di ristrutturazione- da ruderi completamente abbandonati, abbarbicati alle pendici della Iusuterra, S. Gianni.
Non mancarono nelle prime case ristrutturate. Ma poi, visto come erano apprezzati dagli stranieri questi materiali, presto si sviluppò la caccia e la successiva custodia, come bene prezioso dell’economia locale. Le mie prime richieste furono soddisfatte gratuitamente, poi le mattonelle mi erano offerte e vendute al metro quadrato, infine se volevo acquistarle dovevo pagarle a pezzo, a tegola, a mattonella. Non osarono impiegarle nelle proprie case, fino a quando tutti si resero conto che le case, così come erano state ristrutturate, nessuno le avrebbe mai acquistate.
E fu così che, poco a poco, timidamente e poi sempre con maggiore sicurezza, cominciarono a mostrare parti o intere case ristrutturate coi materiali stivati nei catoi. E a venderle.
Anche le maestranze, i muratori cominciarono a prendere familiarità con questo modo di concepire i lavori di ristrutturazione e a immedesimarsi con chi quelle dimore avrebbe abitato. Ricordo la faccia di quel muratore che con una sola parola scatenò l’ilarità delle altre maestranze presenti sul cantiere, giovani e vecchi. Avevamo quel giorno completato la copertura a tetto dell’ultimo piano di una casa. Per cercare di mantenere la sagoma e l’immagine originaria, avevamo posto sulle terminali murature perimetrali le travi del tetto originario, e, dopo aver pulito e scrostato sia i cervoni in castagno sia i coppi, li avevamo riposti con cura sulle vecchie travi, lasciando uno spazio libero nel mezzo, determinando così una piacevole terrazza con tettoia. Il muratore -pur avendo svolto il lavoro con perizia- non convinto della riuscita, essendo a suo avviso una struttura provvisoria e priva di qualità, irruppe esclamando: “Architettu, u jazzu è prontu!” Tutti risero così tanto che forse ancora stanno ridendo.
E tutti pensarono la stessa cosa. Tanti sforzi per giungere ad un risultato simile: un luogo adatto a contenere gli ovini nella notte, prima che siano liberati, allo spuntar del sole. E quelle risate in fondo contenevano un senso di autoderisione. Non potevano mai immaginare che proprio quello spazio era il più ambito della casa, per gli acquirenti svizzeri. Era lo spazio soleggiato di giorno e fresco e panoramico, per cenare al chiaro di luna o al sopraggiungere della sera. Per gli Svizzeri erano preziose quelle cose semplici, che ai miei muratori apparivano scontate e prive di senso.
Le norme quando non riescono a cogliere, a rappresentare la cultura del luogo in un determinato periodo storico, sono fatte per essere violate. Nessuno riuscirà o meglio vorrà osservarle, finché i principi ad esse sottese non riescono ad esprimere la necessaria adeguatezza. E come tale il senso di falsa modernità contenuto nei materiali estranei al luogo (le mattonelle di ceramica, gli infissi d’alluminio anodizzato) rappresenta per quel periodo la risposta giusta ad un’esigenza determinata.
I valori espressi, da quei materiali nuovi, portavano seco un tentativo di oltrepassare la frontiera del borgo, per proiettarsi in una dimensione cittadina, di tempi nuovi, moderni, di consumo, d’omologazione, lasciando alle spalle periodi meno felici della propria esistenza, quando forse non si riusciva a consumare affatto. E questo significava rimuovere -proprio attraverso lo svellimento delle mattonelle e la rimozione dei vecchi infissi- un periodo di cui i materiali erano i principali portatori di memoria, perché ne rappresentavano il vissuto, la quotidianità del tempo passato.
Non si poteva sopportare l’imposizione di norme che prevedevano il recupero di un tempo da cancellare. E nonostante la vigenza di un Piano di Recupero di cui l’Amministrazione Comunale si era dotata, appunto le norme in esso contenute venivano continuamente violate. Ma l’esempio, da solo non sarebbe mai stato sufficiente a modificare un intreccio così profondo di ragioni psicologiche, di rappresentazione. A mano a mano, si è fatta strada una convinzione che recuperare un immobile come volevano gli Svizzeri significava avere dei vantaggi di natura economica non trascurabili.
Si vuole qui affermare che le convenienze economiche valicano ogni limite, superano, negano o addirittura fanno proprie le norme del momento. Che il processo di affinamento di una cultura si attua in maniera più veloce se accompagnata, dettata da ragioni legate a vantaggi di natura economica.


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