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Data: 30/09/2006 - Anno: 12 - Numero: 3 - Pagina: 9 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

BADOLATO ANCORA IN CAMMINO

Letture: 1145               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

Nell’estate del 1951, prima che l’emigrazione, a causa delle alluvioni dell’autunno, si caratterizzasse quale fenomeno di massa, a Badolato c’erano 4842 persone, il massimo dalla nascita del paese, nell’undicesimo secolo. Di queste, secondo i nostri calcoli, che riteniamo molto attendibili, il 95% si dedicava esclusivamente o quasi all’agricoltura o ad attività direttamente collegate, perchè l’economia era prevalentemente agricola, e i terreni a cui badare c’erano, sia pure in qualche misura appartenenti al latifondo. Il restante 5% era costituito da sacerdoti, medici, avvocati, maestri, impiegati, borghesi nullafacenti, commercianti, artigiani di ogni mestiere e casalinghe. Fatte poche eccezioni, sia i contadini che gli altri erano domiciliati a Badolato, perchè il lavoro c’era e perchè gli orizzonti erano ancora ristretti. C’era sì il fenomeno dell’emigrazione, ma era stagionale, quasi sempre orientata verso il Marchesato per la mietitura del grano. Non pochi emigravano nelle Americhe, dal 1870 in poi, ma quasi tutti tornavano al paesello con il gruzzolo che dava loro la possibilità di acquistare la casa, o il vigneto, o il catòju, o la stalla... Poche erano le persone che si trasferivano definitivamente, alcune per impossibilità di ritorno, ma erano comunque rimpiazzate da chi veniva a vivere tra noi, per motivi vari. La natalità, poi, era tale da compensare largamente tutte le perdite, compresi i decessi.
Nonostante lo scossone della seconda guerra mondiale, che aveva coinvolto anche Badolato, e non soltanto con la morte di 26 suoi figli, il vecchio paese sembrava destinato a continuare ancora per secoli il lento cammino legato all’agricoltura, all’autosufficienza, alla rassegnazione, agli angusti orizzonti entro i quali era rimasto per circa un millennio.
Ma le alluvioni del 17 ottobre 1951, prostrando i Badolatesi con la perdita delle case cadute in frantumi e con la devastazione delle campagne divenute aridi letti di fiumara, furono la tragica sveglia di un popolo ormai costretto alla fuga di massa, in cerca del pane ed anche degli strumenti di un riscatto sociale di cui già si cominciava a respirare nell’aria l’ineludibile esigenza. Fu l’inizio di un processo di depauperamento della struttura materiale ed antropica del millenario borgo. E c’è da credere che un tale triste passaggio sarebbe comunque avvenuto. La guerra, da poco finita, aveva lasciato in Europa cumuli di macerie, ma aveva pure dato vita ad una inarrestabile ventata di nuovo. Persino le bombe atomiche sganciate sul Giappone, che avevano seminato morte come mai prima di allora, avevano contribuito a svegliare i popoli dal torpore che in alcune plaghe del pianeta aveva ancora sapore di medioevo. In Italia, poi, come del resto in altri Paesi, ha notevolmente contribuito al cambiamento la riacquistata libertà interna con il crollo della dittatura, e, in modo concreto e più immediato, l’impostazione politica nazionale fin dai primi anni del dopoguerra, con le spinte in avanti esercitate, in modo determinato e talvolta anche duro, da quelle forze che andavano prendendo coscienza del loro ruolo per la costruzione di un nuovo futuro.
Si può ben dire che in quegli anni, probabilmente nell’inconsapevolezza generale, e certamente al buio delle masse del pianeta, andavano formandosi i germi della globalizzazione, che avrebbe cambiato il mondo, e quindi anche i piccoli paesi come Badolato e tanti altri della nostra Calabria, ma anche del Nord ricco d’Italia e d’altri Stati d’Europa. Questa globalizzazione che è insieme sintomo e causa di una decisa svolta della Storia, che sta comportando spostamenti di grandi masse sul pianeta e stravolgimenti politici economici e sociali, che sta creando sempre più nuove frontiere in tutti i campi dell’umano operare e dell’umano sapere. Ma che sta facendo pagare agli umani, e a tutto ciò che è vivente sulla terra, prezzi così alti che forse nessuna mente criminale avrebbe mai immaginato: questo è il mondo delle guerre, delle prepotenze, delle divaricazione e delle prevaricazioni; è il mondo della deriva globale, materiale e umana; il mondo in cui tutto è precario, tutto è effimero. Non ultimi i cosiddetti valori umani. Non a caso di questi tempi si parla e si scrive oltre ogni misura di “identità”, appunto perchè c’è continua perdita di identità e immediata, anzi contestuale, sovrapposizione della nuova. Non esiste più -conclude qualcuno- un trigonometrico fermo, sicuro. è la storia -concludono altri- e nessuno potrà mai fermarla. Neanche Mimmo Lanciano col suo grido di allarme, e neanche il sindaco di Cleto o di Nardodipace. Nè i Sindaci delle migliaia di paesi che in Europa vanno perdendo, con la gente, l’identità. Forse nessuno mai sarà capace di arrestare la morte di case, chiese, monumenti, restituendo loro quel senso che è il frutto di umane frequentazioni cariche di gioie e di dolori, quel caratteristico secolare senso che vanno inesorabilmente perdendo. Per acquisirne altro, conclude qualcuno. Che sia espressione e portatore di accettabili umani valori: non tutte le morti portano ogni cosa con sè.
Ecco. “La Radice” non propone la commemorazione del ventennale di quell’articolo, del 7 ottobre 1986, in cui per la prima volta qui da noi si parlava di paesi che muoiono. Non la propone, anche perchè non avrebbe senso. Perchè, allora, le pagine che seguono?
Si approfitta di tale data, che si ripresenta ogni anno, e quest’anno per la ventesima volta, perchè si ritiene opportuno offrire a chi ci legge lo stimolo per una riflessione libera e seria sull’argomento, che non è da poco, che ci riguarda comunque e da vicino, che si voglia o no. Per convincersene, qualora ce ne fosse bisogno, basterebbe dare uno sguardo attento non soltanto ai vecchi borghi collinari di Calabria e d’ogni altra contrada, ma sarebbe ancor sufficiente riflettere sul quanto e sul perchè le nostre ferrovie non funzionano, sul come e sul perchè la SS 106 continua a costituire freno allo sviluppo seminando morte, sul come e sul perchè il degrado galoppa e il lavoro è un’utopia, e i nostri figli emigrano, anche quelli che avevano deciso di tornare per tentare di vivere una vita a misura di essere umano, e i paesi si spopolano, comprese le marine. Bisogna smetterla con il nostro classico vizio di piangerci addosso, ci ammonisce in continuazione qualche benpensante. E ha ragione. Basta guardarsi intorno per vedere le schiere che danno una forte spinta alla Storia che degrada, stravolge e uccide. è vero: non si hanno più occhi per piangere.
Noi non conosciamo ricette: siamo troppo poca cosa per conoscerne e per proporne qualcuna. E siamo altresì convinti che se ce ne fossero, ricette, non sarebbero in ogni caso realizzabili da parte di chi non detiene il potere. Siamo certi, comunque, che è positivo discuterne, come di recente è avvenuto in un’aula dell’Università della Calabria, ad Arcavacata. E siamo veramente lieti che abbiano accettato il nostro invito a scriverne per i lettori de “La Radice” alcuni autorevoli nostri amici, tutti in qualche modo rappresentativi di settori della vita sociale (antropologico, storico, urbanistico, turistico, amministrativo...). Altri amici, che avrebbero ulteriormente e diversamente arricchito questo lavoro, per motivi che abbiamo il dovere di non indagare o di non palesare, non hanno dato risposta al nostro invito: non possiamo che esserne spiacenti.
Agli Autori delle riflessioni che seguono il nostro sentito ringraziamento, nella speranza che il contributo da loro offertoci non sia vano.

Vincenzo Squillacioti * Direttore de “La Radice”


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