Data: 30/09/2006 - Anno: 12 - Numero: 3 - Pagina: 7 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
Come non ho visto a CUMPRùntra |
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AUTORE: Fausto Marcone (Altri articoli dell'autore)
Non ho mai visto a cumpruntra, ma vivo da sempre un rito analogo, dai miei padri più lontani. Quando è Pasqua e le nevi sulla Maiella sono sciolte, certi anni però essa biancheggia ancora, al mezzogiorno e tutta la gente è radunata in piazza, la statua della Madonna corre verso la statua del figlio che è risorto. Generazioni di occhi pensosi e di mani secche dalla fatica sulla terra hanno visto e trepidato e in quella manciata di secondi la loro vita e quella delle loro madri, dei loro figli, di chi non c’era più o c’era ancora, è passata loro dentro. Lo si capisce dagli occhi umidi, dal tremore delle mani, dall’impossibilità di parlare. Così io immagino che sia per a cumpruntra, di cui mi sono fatto raccontare i passi, una due tre volte, fino ad annoiare il mio amico badolatese. Forse ho in mente troppo la mia Pasqua e tendo a immaginare a cumpruntra in modo come essa non è. Certo ogni luogo è diverso, ha la sua luce e le sue linee che sono la sua realtà più profonda. Ogni luogo ha il suo vento e i suoi rumori che ne modellano e ne costituiscono le sue dimensioni. Ma quella spina dorsale che attraversa tutta l’Italia fino a Trapani, che si dirama nei suoi quattro mari e che crea tanti luoghi diversi, ha una linfa che forse è la stessa. Duemila anni di gente contadina, di mura di piccole città sono comuni. La mia curiosità, forse eccessiva, per la manifestazione pasquale di Badolato nasce per il grande stupore avuto quando ho appreso che quasi la stessa funzione, che io vedo da sempre in Abruzzo, si svolge a settecento km di distanza. Sicuramente molte forme analoghe di teatro di piazza religioso devono essersi avute nei secoli che dal Medioevo salgono fino al Settecento/Ottocento, ormai però prerogativa di Confraternite. E cento anni e più fa comincia una loro trasformazione in senso più programmato e organizzato, con regole che sono vive ancor oggi. Credo anche che queste espressioni e partecipazioni popolari, corali, lascino ancora spazio a piccole invenzioni o modifiche che diventano anche loro dopo qualche anno tradizione. Questa trasformazione di un secolo e più fa era inevitabile in ragione dei mutamenti delle città, del loro vivere civile, della vita materiale e della vita religiosa dei loro uomini. La mia attenzione, in quella curiosità e in quello stupore, si è fermata su alcuni elementi comuni alle due manifestazioni e che mi hanno fatto pensare alla loro presenza nella vita e nelle storie degli uomini. Il primo è quell’andare e tornare: qui sono uno stendardo e un tamburo, lì due statue di S. Pietro e di S. Giovanni. Andare e tornare che calcano una piccola impronta di diversità in quella nostra, concezione, da due millenni, del tempo che abbiamo pensato come lineare e che ammette solo l’andare della freccia. `E9 comune a tutti, quotidiano addirittura, l’andare e il tornare, da quello più banale, dell’uscita di casa e del rientro, a quello più significativo e complesso del partire e uscire da un io e più tardi ritornarci. Anche questo andare e tornare più significativo è consumato nelle nostre vicende più volte. `E9 come se in quella dimensione del tempo noi continuiamo a spostarci avanti e indietro mentre tutto va avanti e cambia. Ecco, se tornare alla fine da quella fiera che è la vita ci può cogliere a mani vuote, il ritorno nella corsa della Madonna conquista il nuovo e il più alto, ciò che è stato sempre anelito dell’uomo. E che questo ritorno si veda almeno una volta all’anno, serve a tenere fermo il desiderio del nuovo e del più alto. L’altro elemento è proprio la corsa. Abbiamo sempre corso. La nostra esistenza sta in mezzo ad andature diverse e tra queste c’è la corsa, indice di un interesse fortissimo e pressante. Anche nelle nostre piccole vite corriamo, corriamo fisicamente tutti i giorni e in senso più trasfigurato. Corriamo, già, ma ci si sposta veramente? Si va veramente in qualche luogo, una diversa dimensione? Quella corsa, invece, in pochi secondi, è un viaggio vero e diventa uno spostamento di tutti. Altri elementi possono essere importanti, come per esempio la penetrazione di quel rito nella vita della città e delle sue molte anime o come lo stupore e il silenzio che si alzano in quei momenti e che comprimono le generazioni a una sola, ma non posso prendere altro spazio e non mi ci soffermo. Ad un altro, però, accenno perchè di esso sono sicuro. Lì, in quei momenti, mi pare forte una ricerca del numinoso, che si sa non può cadere e permeare l’umano se non in pochi secondi. Forse è quella che i greci chiamavano catarsi, liberazione, sollevazione, espulsione dal sè singolo e collettivo del male o forse è vedere per pochi istanti realizzarsi un mondo nuovo, non so, so però il benessere che arriva dopo, per poco che duri. L’ultima considerazione riguarda la festa. Quella di Pasqua è una festa, la festa che una volta scattava in migliaia di piazze dell’Italia e dell’Europa e ora sempre in meno piazze. Festa come vicinanza con tutti e vicinanza soprattutto con quelli che non ci sono più e che in quelle occasioni di forte coralità della gente di un luogo si sentono presenti. Nella festa ci deve essere ritualità, interpretazione, ruoli, e non solamente di alcuni, ma di molti, moltissimi. Non è festa l’essere schiacciati tutti alla stessa maniera, dalla musica tecnologica e da un fare acritico, magro, se non acefalo, e portatore di disillusione. La festa è il rito che si ripete, in cui vediamo attori e ci ricordiamo degli attori scomparsi. A cumpruntra che si vede è sempre quella che dentro di sè contiene tutte le altre viste.
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