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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/04/2021 - Anno: 27 - Numero: 1 - Pagina: 43 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

DAL SUD ALLE “ORTAIE” DELLA LOMBARDIA

Letture: 1019               AUTORE: Domenico Lanciano (Altri articoli dell'autore)        

Quanto segue vuol essere un breve pro-memoria umano, sociale e storico sulle migrazioni
agricole femminili da Badolato e dintorni, nei quattro decenni del dopoguerra (1945-1985), verso
le regioni del nord Italia, specialmente verso gli orti (le cosiddette “ortaie”) della Lombardia.
Ma, durante le mie ricerche, sono incappato in uno spiacevole imprevisto, il primo in quasi 56
anni, da quando faccio giornalismo (aprile 1965). Ecco cosa è successo. Ho intervistato una signora
nostra compaesana che ha lavorato, dal 1958 al 1962, negli orti di una grande azienda agricola localizzata tra due comuni della periferia nord di Milano
(a circa 7 km dal Duomo). In questa azienda vigeva una ferrea
disciplina di tipo militare o conventuale, gestita dalla proprietà
e da alcune suore mediamente per circa 130 ragazze rigorosamente
nubili, di cui un centinaio provenienti dalla Calabria
(specialmente dal nostro comprensorio di Soverato) e circa 30
dalla Puglia, ma c’erano pure lavoratrici esterne provenienti
da varie località della Lombardia. L’orario di lavoro era così
suddiviso: 07,00 fino alle 12,00 – pausa pranzo – ripresa alle
13,30 fino alle 17,00 e si lavorava pure la domenica mattina.
Questi ritmi erano uguali per tutte, ma chi voleva lavorare di
più c’era la possibilità di fare gli straordinari ed anche il cottimo.
Quando capitava di lavorare insieme, dalle lombarde ricevevano
insulti razzistici del tipo “terrone” o “mangia-sapone”
ed altre cattiverie tipiche di quegli anni antimeridionali.
Tali ragazze vivevano e lavoravano da marzo a novembre
in questa cascina agricola senza mai poter uscire all’esterno
e non potevano ricevere visite. Dovevano badare alla pulizia dei locali comuni, accettare il
menù ripetitivo di verdure, riso e minestrone; soltanto giovedì e domenica era prevista la pasta.
Niente carne, pesce o formaggi. Se qualcuno di loro non gradiva, doveva acquistare cibo
alternativo dalle suore. Tali suore erano assai rigide pure nel fare osservare alle giovani donne
i riti cattolici della preghiera al risveglio, prima dei pasti e prima di andare a letto, recitare il
rosario in cappella mattina e sera, mentre domeniche e festivi erano obbligate ad assistere alla
Messa. Soltanto nelle poche grandi festività potevano partecipare alla Messa fuori dalla cascina
e venivano accompagnate in fila per due (come collegiali) alla chiesa della cittadina. Le suore
comminavano multe a coloro che non si attenevano a tale regime. Tali multe consistevano nella
riduzione della paga mensile. Ovviamente avvenivano delle ribellioni per tale trattamento.
Ma, poiché, le donne erano andate lì per lavorare duro, dati i tempi difficili, erano costrette ad
ubbidire e ad attenersi a tali trattamenti, anche se - in verità - i proprietari apparivano gentili ed
umani. Era solo la mentalità di quei tempi?
A proposito della remunerazione. Ciò che le lavoratrici guadagnavano con il proprio lavoro
veniva trattenuto dalla proprietà e dato loro alla fine della stagione, ma senza gli interessi bancari
e postali allora in vigore (il che non mi sembra affatto cosa di poco conto). Le lavoratrici
potevano avere soltanto dei piccoli acconti per ovvie spese personali. Per le 130 lavoratrici
non c’era né un telefono a gettoni per poter telefonare o ricevere telefonate, né c’era un apparecchio
televisivo (tenendo presente che i programmi della Rai erano cominciati ufficialmente
il 03 gennaio 1954 e la ricezione era ottima nella zona di Milano). La proprietà non ha mai
pensato di proiettare nemmeno una pellicola cinematografica (e possiamo pensare che a Milano
ci potevano essere ditte di noleggio fatte apposta). Non c’erano giochi per poter passare
il tempo libero. Esisteva un solo giradischi, ma era stato portato da casa da una delle ragazze.
Insomma, più che una residenza per giovani lavoratrici mi ha dato l’idea di un “lager” o di una
caserma militare, fermo restando che pure allora i militari di leva venivano trattati meglio sia
nel cibo che nella libera uscita. Domanda: erano così tutte le 350 “ortaie” a quei tempi esistenti
nella cintura milanese?... Sarebbe illuminante ed utile appurarlo.
Come è mio stile giornalistico, prima di pubblicare sottopongo quanto ho scritto agli interessati,
pur per un controllo sull’esattezza del racconto. Ho contattato uno degli eredi di quella
grande azienda agricola inviandogli la bozza del testo. Dopo 26 ore costui mi dice, per telefono,
che lui e gli altri eredi cui ha sottoposto il mio articolo gradivano non essere nominati e
mi contestava alcune cose come ad esempio: 1- che erano “fantasiosi” alcuni passi della mia
ricostruzione (basata sulla testimonianza di una delle ragazze che ha lavorato in quella azienda
dal 1958 al 1962); 2- che la rigorosa disciplina era stata raccomandata dalle stesse famiglie,
che volevano stare tranquille ad oltre mille km di distanza; 3 - che non era vero che facessero
lavorare ragazze sotto i 16 anni, mentre invece la nostra “testimone” ha lavorato quando aveva
14 e 15 anni. Nessun tipo di sindacato era presente in quella cascina agricola per tutelare o
difendere le lavoratrici che venivano da Calabria o da Puglia e, in un altro settore della lavorazione
degli orti, pure da altri luoghi della Lombardia in forma pendolare e non residenziale.
A questo punto, per i gentili Lettori che ne volessero saperne di più indico il sito www.
costajonicaweb.it dove troveranno più particolari di questa vicenda che a me sembra assai
strana e sulla quale sarebbe utile ed opportuno che indagasse (almeno sociologicamente e
storicamente) una qualche università ed un qualche sindacato. C’è un proverbio che afferma:
“Si dice il peccato e non il peccatore”. Di conseguenza, ritengo che ci aspetteremmo almeno
maggiore e migliore chiarezza per questa “storia” delle nostre donne le quali, appare chiaro,
affrontavano molti sacrifici esistenziali oltre che di lavoro vero e proprio e oltre alla grande
lontananza dalle famiglie e dai paesi per ben nove mesi.
Per concludere, nell’articolo più lungo (già pubblicato) ho accennato pure alle ragazze
richieste in sposa da giovani operai, agricoltori e allevatori della pianura padana. Un altro
capitolo, questo che andrebbe indagato e descritto, poiché sono state numerose le ragazze badolatesi
e della nostra zona, protagoniste di tale “migrazione matrimoniale”. Ho riportato pure
la situazione di un’altra azienda agricola (più piccola di quella precedente) nella quale hanno
lavorato altre donne badolatesi. Ma qui le lavoratrici, pur nelle ristrettezze mentali di quei tempi
e delle oggettive situazioni, erano libere di uscire dopo l’orario di lavoro e di gestirsi meglio.
Venivano remunerate ogni fine settimane, ma pure in quella loro residenza aziendale non c’era
né radio, né TV, né telefono rice-trasmittente né altro strumento di comunità per il tempo libero.
Lavoravano e vivevano egualmente con grandi sacrifici ambientali. Ci sarebbe veramente
tanto da appurare e da approfondire … è pure sempre una pagina della nostra storia sociale!
Domenico Lanciano
(Si ringrazia l’amico collaboratore Mimmo Lanciano per averci fatto conoscere un’altra pesante
forma di “emigrazione” della nostra gente, delle nostre donne, che ci ricorda tanto le mondine, di cui
abbiamo scritto altra volta, il trasferimento di tante donne calabresi in Egitto quali nutrici durante la
realizzazione del Canale di Suez, ed anche la tanto rischiosa emigrazione “bellica” in Germania durante
la seconda guerra mondiale.)


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