Data: 30/04/2014 - Anno: 20 - Numero: 1 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
DIVAGAZIONI SU FRANCESCO PERRI |
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AUTORE: Antonio Barbuto (Altri articoli dell'autore)
L’originaria e poi costante preoccupazione della mia collaborazione a “La Radice”, amichevolmente concordata col Direttore Prof. Vincenzo Squillacioti, di redigere schede critiche sulla letteratura calabrese, fu di evitare ad ogni costo la funesta e diffusa abitudine della celebrazione. Per garantirmi scelsi di citare come vademecum orientativo alcune righe di Vito Galati tratte dalla Introduzione al volume Gli scrittori delle Calabrie. Dizionario biobibliografico, con prefazione di Benedetto Croce, Vallecchi, Firenze, 1928, vol. I° (l’unico pubblicato contiene solo la lettera A). Galati deprecava l’abusato “criterio elogiativo delle glorie di casa” mentre “assai di rado si guarda con benefica crudeltà la storia della cultura calabrese, che, come in ogni luogo, è frutto di pochi uomini di genio, di un forte gruppo di buoni operai della mente e di una moltitudine di mediocri: scarsi poeti (più spesso, e quasi in linea ininterrotta, latini), e numerosissimi ciarlatani versificatori; alcuni filosofi di marca autentica, e una sequela di sciocchi sofisti impasticciati di casistica, sterili rimasticatori di precettistica stantia; sicché, in ogni nuovo critico, tu scopri un esaltatore, che vuol vedere e far vedere quel che non c’è, sicuro del fatto suo in apparenza, ma in realtà traballante su un terreno che frana da ogni parte”. Lo studioso argomentava più distesamente un’indicazione del Croce all’inizio della sua prefazione quando osserva perentoriamente “che la poesia, la letteratura, la filosofia, l’alta scienza di un popolo siano rappresentati da un numero non grande di uomini”. Riletti questi impagabili avvertimenti, per la presente circostanza, non posso non pensare al massacro che si fa oggigiorno di quella cosa nobile che è la letteratura per merito di giornalistiscrittori, analfabeti-poeti, cantanti-scrittori, calciatori-scrittori, puttane-scrittrici e via elencando. Nelle schede pubblicate finora non mi sono mai permesso di celebrare o sopravvalutare i poeti e gli scrittori di cui ho informato i lettori della rivista. Certi scrittori rimangono nella memoria talvolta solo per un libro, anche se ne hanno scritto altri, troppi o pochi che siano. Il nome di Francesco Perri l’ho sempre collegato al suo romanzo Emigranti: le ragioni non riesco a spiegarmele a meno che non siano psicologiche prima che letterarie. Ma tant’è. Perri è uno scrittore che non ho frequentato né con assiduità né con favore: è rimasto sempre legato a un fatto di mestiere, capitato quasi per caso durante gli anni del mio insegnamento di “Sociologia della letteratura” all’Università di Urbino. Come s’usava, ai miei tempi, il cosiddetto “corso monografico” era dedicato a un argomento specifico e Letteratura e vita nazionale di Gramsci era un testo canonico e imprescindibile per la ricchezza di argomentazioni di alto spessore scientifico e culturale. Ai miei studenti ripetevo spesso come un mantra quell’osservazione capitale che si legge nelle primissime pagine: “Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento storico-sociale, ma uno può essere artista e l’altro un semplice untorello”. Ma la sezione IV, I nipotini di padre Bresciani, era anche la parte che stimolava le giovani menti a un uso critico militante perché quelle pagine aggredivano molti scrittori contemporanei che nella manualistica sono ridotti a puro “flatus vocis” o tutt’al più solo citati. Ma a noi interessava soprattutto come Gramsci conduceva le sue spietate analisi. La scelta di scrivere una noterella su Francesco Perri non vuole essere un esempio di quella “crudeltà benefica” invocata da Galati, ma soltanto la messa a punto su uno scrittore di non alto valore letterario nonostante i suoi libri siano stati pubblicati da editori come Mondadori e Rizzoli. (Emigranti e Povero cuore: per citare i due titoli che possiedo).
Tra i molti scrittori schedati sotto la rubrica di quel “brescianesimo [che] assume una certa importanza nel “laicato” letterario del dopoguerra e va sempre più diventando la “scuola” narrativa preminente e ufficiosa”, è compreso anche Francesco Perri, autore del romanzo Emigranti. Il giudizio di Gramsci è severo e inappellabile e per questo mi permetto di riassumerlo a beneficio del lettore. Scrive Gramsci: “Negli Emigranti il tratto più caratteristico è la rozzezza, ma non la rozzezza del principiante ingenuo […] ma da rimbambito pretenzioso. Secondo il Perri il suo romanzo sarebbe “verista” ed egli sarebbe l’iniziatore di una specie di neorealismo […] Negli Emigranti manca ogni accenno cronologico […] Vi sono due riferimenti generici: uno al fenomeno dell’emigrazione meridionale […] uno ai tentativi di invasione delle terre signorili “usurpate” al popolo […] Negli Emigranti le distinzioni storiche, che sono essenziali per comprendere e rappresentare la vita del contadino, sono annullate e l’insieme confuso si riflette in modo rozzo, brutale, senza elaborazione artistica”. Quando ai miei studenti ripetevo quella osservazione capitale lo facevo per sottolineare che l’opera d’arte è specificata non dal contenuto ma dalla capacità formalizzatrice dello scrittore, anche per un marxista come Gramsci. Nel romanzo di Perri, per Gramsci, “l’assenza di storicità è “voluta” per poter mettere in un sacco alla rinfusa tutti i motivi folcloristici generici, che in realtà sono molto ben distinti nel tempo e nello spazio”. Il giudizio di Gramsci pesa fortemente -su di me certamente- anche se non manca qualche esaltatore strapaesano e moralista del piccolo mondo della narrativa di Perri. Antonio Piromalli, in alcune pagine della sua “La letteratura calabrese” ricostruisce puntualmente l’opera dello scrittore sottolineando “il mancato rapporto con la realtà del romanzo italiano del primo dopoguerra. Perri continua ad essere ricordato ed esaltato come il cantore di una epopea calabrese, anzi reggino-ionica, con Emigranti.” Anche Piromalli mette in risalto la completa sfiducia dello scrittore nel popolo e cita opportunamente: “Non è nuova la constatazione che ogni società si basa sopra una servitù, sopra una posizione più o meno servile della massa, e quando si dice massa si dice lavoro. Dunque la redenzione del lavoro umano è una chimera”. Per Piromalli “il brescianesimo, la concezione naturalistico-folklorica che Perri ha del suo popolo” condiziona la realtà storica, e persino esplicito risulta il “brescianesimo erotico allorché scrive che i conquistatori fascisti finirono nei campi in compagnia di qualche fiorente operaia, che tra un cioccolatino e una promessa, dimentica tutte le pregiudiziali della lotta di classe”. Un’ultima osservazione riguarda l’evidenziazione degli errori di espressioni orali dei contadini: “diversive” per “eversive”, “bollitive” per “abolitive”) e scritte: “siamo lasciata la nostra patria, nonché l’americanizzazione di alcune parole italiane. Quando all’inizio supponevo ragioni psicologiche nell’evocare il nome dello scrittore, forse mi riferivo al fatto che sono nipote di emigranti e ricordo che nelle lettere di mio nonno e di mio zio ricorrevano queste “perle” che, nella mia memoria conservano affetto e comprensione intatta. |