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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/04/2014 - Anno: 20 - Numero: 1 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

DIVAGAZIONI SU FRANCESCO PERRI

Letture: 1416               AUTORE: Antonio Barbuto (Altri articoli dell'autore)        

L’originaria e poi costante preoccupazione della mia collaborazione a “La Radice”, amichevolmente
concordata col Direttore Prof. Vincenzo Squillacioti, di redigere schede critiche sulla
letteratura calabrese, fu di evitare ad ogni costo la funesta e diffusa abitudine della celebrazione.
Per garantirmi scelsi di citare come vademecum orientativo alcune righe di Vito Galati tratte
dalla Introduzione al volume Gli scrittori delle Calabrie. Dizionario biobibliografico, con
prefazione di Benedetto Croce, Vallecchi, Firenze, 1928, vol. I° (l’unico pubblicato contiene
solo la lettera A).
Galati deprecava l’abusato “criterio elogiativo delle glorie di casa” mentre “assai di rado
si guarda con benefica crudeltà la storia della cultura calabrese, che, come in ogni luogo, è
frutto di pochi uomini di genio, di un forte gruppo di buoni operai della mente e di una moltitudine
di mediocri: scarsi poeti (più spesso, e quasi in linea ininterrotta, latini), e numerosissimi
ciarlatani versificatori; alcuni filosofi di marca autentica, e una sequela di sciocchi sofisti
impasticciati di casistica, sterili rimasticatori di precettistica stantia; sicché, in ogni nuovo
critico, tu scopri un esaltatore, che vuol vedere e far vedere quel che non c’è, sicuro del fatto
suo in apparenza, ma in realtà traballante su un terreno che frana da ogni parte”.
Lo studioso argomentava più distesamente un’indicazione del Croce all’inizio della sua
prefazione quando osserva perentoriamente “che la poesia, la letteratura, la filosofia, l’alta
scienza di un popolo siano rappresentati da un numero non grande di uomini”.
Riletti questi impagabili avvertimenti, per la presente circostanza, non posso non pensare al
massacro che si fa oggigiorno di quella cosa nobile che è la letteratura per merito di giornalistiscrittori,
analfabeti-poeti, cantanti-scrittori, calciatori-scrittori, puttane-scrittrici e via elencando.
Nelle schede pubblicate finora non mi sono mai permesso di celebrare o sopravvalutare i
poeti e gli scrittori di cui ho informato i lettori della rivista.
Certi scrittori rimangono nella memoria talvolta solo per un libro, anche se ne hanno scritto
altri, troppi o pochi che siano.
Il nome di Francesco Perri l’ho sempre collegato al suo romanzo Emigranti: le ragioni non
riesco a spiegarmele a meno che non siano psicologiche prima che letterarie. Ma tant’è.
Perri è uno scrittore che non ho frequentato né con assiduità né con favore: è rimasto sempre
legato a un fatto di mestiere, capitato quasi per caso durante gli anni del mio insegnamento
di “Sociologia della letteratura” all’Università di Urbino.
Come s’usava, ai miei tempi, il cosiddetto “corso monografico” era dedicato a un argomento
specifico e Letteratura e vita nazionale di Gramsci era un testo canonico e imprescindibile
per la ricchezza di argomentazioni di alto spessore scientifico e culturale.
Ai miei studenti ripetevo spesso come un mantra quell’osservazione capitale che si legge
nelle primissime pagine: “Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento
storico-sociale, ma uno può essere artista e l’altro un semplice untorello”.
Ma la sezione IV, I nipotini di padre Bresciani, era anche la parte che stimolava le giovani
menti a un uso critico militante perché quelle pagine aggredivano molti scrittori contemporanei
che nella manualistica sono ridotti a puro “flatus vocis” o tutt’al più solo citati. Ma a noi
interessava soprattutto come Gramsci conduceva le sue spietate analisi.
La scelta di scrivere una noterella su Francesco Perri non vuole essere un esempio di quella
“crudeltà benefica” invocata da Galati, ma soltanto la messa a punto su uno scrittore di non
alto valore letterario nonostante i suoi libri siano stati pubblicati da editori come Mondadori
e Rizzoli. (Emigranti e Povero cuore: per citare i due titoli che possiedo).

Tra i molti scrittori schedati sotto la rubrica di quel “brescianesimo [che] assume una certa
importanza nel “laicato” letterario del dopoguerra e va sempre più diventando la “scuola” narrativa
preminente e ufficiosa”, è compreso anche Francesco Perri, autore del romanzo Emigranti.
Il giudizio di Gramsci è severo e inappellabile e per questo mi permetto di riassumerlo a
beneficio del lettore. Scrive Gramsci: “Negli Emigranti il tratto più caratteristico è la rozzezza,
ma non la rozzezza del principiante ingenuo […] ma da rimbambito pretenzioso. Secondo
il Perri il suo romanzo sarebbe “verista” ed egli sarebbe l’iniziatore di una specie di neorealismo
[…] Negli Emigranti manca ogni accenno cronologico […] Vi sono due riferimenti generici:
uno al fenomeno dell’emigrazione meridionale […] uno ai tentativi di invasione delle
terre signorili “usurpate” al popolo […] Negli Emigranti le distinzioni storiche, che sono
essenziali per comprendere e rappresentare la vita del contadino, sono annullate e l’insieme
confuso si riflette in modo rozzo, brutale, senza elaborazione artistica”.
Quando ai miei studenti ripetevo quella osservazione capitale lo facevo per sottolineare
che l’opera d’arte è specificata non dal contenuto ma dalla capacità formalizzatrice dello scrittore,
anche per un marxista come Gramsci.
Nel romanzo di Perri, per Gramsci, “l’assenza di storicità è “voluta” per poter mettere in
un sacco alla rinfusa tutti i motivi folcloristici generici, che in realtà sono molto ben distinti
nel tempo e nello spazio”.
Il giudizio di Gramsci pesa fortemente -su di me certamente- anche se non manca qualche
esaltatore strapaesano e moralista del piccolo mondo della narrativa di Perri.
Antonio Piromalli, in alcune pagine della sua “La letteratura calabrese” ricostruisce puntualmente
l’opera dello scrittore sottolineando “il mancato rapporto con la realtà del romanzo
italiano del primo dopoguerra. Perri continua ad essere ricordato ed esaltato come il cantore
di una epopea calabrese, anzi reggino-ionica, con Emigranti.”
Anche Piromalli mette in risalto la completa sfiducia dello scrittore nel popolo e cita
opportunamente: “Non è nuova la constatazione che ogni società si basa sopra una servitù,
sopra una posizione più o meno servile della massa, e quando si dice massa si dice lavoro.
Dunque la redenzione del lavoro umano è una chimera”.
Per Piromalli “il brescianesimo, la concezione naturalistico-folklorica che Perri ha del suo
popolo” condiziona la realtà storica, e persino esplicito risulta il “brescianesimo erotico allorché
scrive che i conquistatori fascisti finirono nei campi in compagnia di qualche fiorente operaia,
che tra un cioccolatino e una promessa, dimentica tutte le pregiudiziali della lotta di classe”.
Un’ultima osservazione riguarda l’evidenziazione degli errori di espressioni orali dei contadini:
“diversive” per “eversive”, “bollitive” per “abolitive”) e scritte: “siamo lasciata la
nostra patria, nonché l’americanizzazione di alcune parole italiane.
Quando all’inizio supponevo ragioni psicologiche nell’evocare il nome dello scrittore,
forse mi riferivo al fatto che sono nipote di emigranti e ricordo che nelle lettere di mio nonno
e di mio zio ricorrevano queste “perle” che, nella mia memoria conservano affetto e comprensione
intatta.


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