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Data: 31/08/2015 - Anno: 21 - Numero: 2 - Pagina: 29 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

IL LAVORO DEL “POETA”

Letture: 637               AUTORE: Giovanna Durante (Altri articoli dell'autore)        

“O poèta patrùni ’e ’sta vigna / tu non campi cu la tua poisìa; / eu zzappu ’sta vigna e
lavùru pe tìa, / zzappu a jornàta e sciuppu gramìgna / pe nu ciucciu mbardàtu comu tìa.” (“O
poeta proprietario di questo vigneto / tu non hai bisogno della poesia per vivere; / sono io che
lavoro tutto il giorno per te, / zappo il tuo fondo e sradico gramigna / per un asino agghindato
qual tu sei.”).
È questa un’antica poesiola dialettale, composta da un anonimo contadino, da cui emergono
sentimenti di astio e di ribellione nei confronti di un mondo carico di ingiustizia sociale e degli
uomini che lo rappresentano. Chi parla è un uomo costretto dalle ristrettezze economiche a
lavorare tutto il giorno, per un misero compenso, una terra non sua ma di proprietà di un nobile
latifondista che vive fra gli agi e, a suo dire, passa il tempo a comporre poesie. Alla fine il
malanimo a lungo represso del bracciante diventa invettiva, insulto nei riguardi di quel ricco
signore che definisce asino agghindato.
Nel corso dei secoli la storia dell’umanità è stata sempre caratterizzata da una divisione
più o meno netta tra varie categorie o ceti sociali. In Calabria questo fenomeno fu rilevante;
basti pensare che in Badolato, ma anche negli altri paesi del comprensorio, all’incirca
settanta anni fa numerosi erano gli artigiani (calzolai, sarti, falegnami, muratori, ecc.),
pochi i professionisti e solo alcuni erano i nobili e/o proprietari terrieri che facevano il
bello e il cattivo tempo. La restante categoria era composta da una gran massa di contadini
che lavoravano la terra per conto proprio o a giornata nei terreni dei nobili latifondisti; si
aggiunga un certo numero di pecorai dediti all’allevamento di ovini e bovini soprattutto per
conto di ricchi signori.
Tra i benestanti e i poveri lavoratori della terra esisteva una netta separazione, ma anche
una sorta di dipendenza dovuta a un mutuo bisogno: la classe più debole economicamente
offriva la forza delle sue braccia per i lavori più faticosi; quella dei benestanti concedeva ai
suoi dipendenti i mezzi, non del tutto, però, adeguati al loro sostentamento. Ma la richiesta
di lavoro era tanta e non sempre al contadino era data la possibilità di lavorare a giornata e
di guadagnare il necessario per il mantenimento della propria famiglia. Ed ecco le ripetute
richieste, ecco il conseguente atteggiamento umile e sottomesso nei confronti del ricco
signore da parte di chi non trovava altra via d’uscita dal baratro della miseria. Pertanto la
classe degli abbienti la faceva da padrone e non offriva alcuna possibilità di riscatto umano
e sociale a quel ceto di contadini e pecorai che venivano sfruttati e che conveniva lasciare
nell’ignoranza.
Spesso in casa dei nobili giungevano i “tamàrri” (lavoratori della terra), detti anche “cafoni”,
col cappello in mano, ossequiosi e servili per offrire le loro prestazioni come se chiedessero un
favore di cui essere grati; anzi, contadini, pastori ed a volte artigiani, come segno di gratitudine
e per ingraziarsi i potenziali datori di lavoro, spesso portavano loro le primizie dell’orto o altri
regali in natura. Ma i poveri bisognosi spesso facevano ritorno a casa delusi e mortificati.
Tutto ciò ricorda la figura del pecoraio Argirò che curava il gregge di proprietà del nobile
Filippo Mezzatesta così bene descritto da Corrado Alvaro in Gente in Aspromonte; ricorda
inoltre le vicissitudini del povero pastore che viveva da solo con il suo bestiame sull’Aspromonte
per procurare di che vivere alla sua famiglia; ed infine Antonello, figlio dell’Argirò, il
cui odio per le ingiustizie subite dalla sua famiglia culminò nella terribile vendetta dell’incendio
procurato ai danni del ricco despota.
Col passare del tempo, però, in Calabria quell’umiliante e servile condizione che dapprima
era accettata passivamente, con rassegnazione, quasi per consuetudine, diede origine alle prime
proteste popolari domate a volte col sangue; siamo alla scottante “questione meridionale” che
non può certo essere trattata in questa rubrica.
Torniamo allora al nostro zappatore che, mogio mogio, dissoda la vigna del padrone-poeta
e citiamo un antico proverbio che così recita: “ZZappatùri, zzappa zzappa; dinàri nte na pezza
non da ngruppi.” (“Zappatore, tu zappi sempre, ma non riponi mai un soldino.”); difatti era
convinzione comune che lo zappatore, nonostante la sua continua fatica, difficilmente riusciva
a risparmiare del denaro. Per chi non lo sapesse, la “pezza”, antenata povera dell’odierno
portamonete, era una pezzuola sdrucita dove si soleva porre, avvolto ed annodato strettamente,
qualche soldo risparmiato a costo di enormi sacrifici.


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