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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2015 - Anno: 21 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

IL PECORAIO E LA VIPERA

Letture: 300               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

A Valpetrosa si arrivava soltanto a piedi: salendo da Est si potevano percorrere i dieci
chilometri che la separavano dal capoluogo anche a dorso di asino, di cavallo, di mulo;
scendendo dal crinale appenninico si poteva raggiungere la valle soltanto a piedi per un
impervio sentiero.
Le misere case in cui vivevano le cinquecento anime residenti, erano adagiate, sonnolenti
da secoli, al di qua e al di là del fragoroso e talvolta pericoloso torrente che segnava il confine
tra due diverse Province con lembi di territorio appartenenti a tre diversi Comuni.
Nella pietrosa valle, dove raramente arrivava un forestiero che non fosse maestro di
scuola, o prete in qualche raro Natale, l’uomo del mondo civile non vi aveva ancora portato
l’energia elettrica, per cui il buio della notte era rischiarato soltanto dalla luna. Non c’era
quindi posto per elettrodomestici, neanche nelle case delle famiglie meno povere. Né vi
arrivavano le immagini della televisione che già da un decennio informava e dilettava gli
Italiani. Unico collegamento con il resto del mondo quello telefonico, da utilizzarsi ancora
a quell’epoca soltanto per appuntamento prefissato, da un posto telefonico pubblico allocato
in un piccolo negozio dove si potevano acquistare anche le sigarette e bere un bicchiere di
vino. A Valpetrosa non c’era il medico. La scuola sì, c’era: due pluriclassi a calendario speciale,
rette da insegnanti quasi sempre supplenti perché quelli di ruolo facevano di tutto per
evitare quella sede. Non c’era l’acqua potabile nelle case. Alla mancanza di rete fognaria si
provvedeva con il pozzo nero, “importato” solo da qualche anno da un maestro che veniva
dal capoluogo.
Condizioni di vita, quelle di Valpetrosa che hanno spinto fin quaggiù, nella Calabria
Media, un gruppo di studiosi tedeschi, sociologi, antropologi, politici che rientrando in Germania
hanno sentenziato d’aver visitato l’agglomerato umano più misero e più penalizzato
d’Europa. I Valpetrosani, però, tanto miseri non si sentivano, e neanche tanto periferici e
abbandonati. Un brav’uomo, che aveva fatto il servizio militare da infermiere, non mancava
di accorrere in caso di incidenti sul lavoro, per una fasciatura o per fare assumere la
compressa che a parer suo serviva e di cui era fornito. La mamma della bidella della scuola,
sebbene novantenne, aiutava con piacere le partorenti a far venire alla luce le loro creature.
Mastro Cosimo, il ciabattino, usava magistralmente le tenaglie del suo mestiere per tirare,
di notte o di giorno, un molare dal dolore insopportabile. Due volte la settimana Ntoni u
Currèri scendeva con l’asino al capoluogo per ritirare, da responsabile procaccia, la corrispondenza
dall’Ufficio postale per poi distribuirla ai destinatari. Un prete, un volontario
salesiano, quando poteva arrivava nella valle: nella piccola e disadorna chiesetta celebrava
Messa, confessava le donne, e, soprattutto, battezzava i bambini, che non rischiavano così
di rimanere turchj. In caso di imminente pericolo di vita di un bimbo non ancora battezzato,
accorreva la buona Bice a impartire il Battesimo secondo le istruzioni ricevute da don Ignazio,
il Salesiano.
Quando si rendeva necessario un collegamento urgente con il mondo organizzato la missione
veniva affidata a Cristoforo che, in groppa alla sua snella e saettante cavalla, volava per il
tratturo antico sino al capoluogo per portare il messaggio a chi di dovere, il Medico condotto,
il Sindaco, il Pretore, il Maresciallo dei Carabinieri.
I Valpetrosani non hanno mai conosciuto il “verdetto” della commissione tedesca, ma
se qualcuno gliel’avesse comunicato non avrebbero esitato un istante per respingerlo al
mittente, perché falso, secondo loro. Stavano bene loro: non mancavano di niente! O quasi.
Lavoravano sodo, uomini e donne, e i prodotti della terra, ortaggi e frutti di ogni genere,
erano sempre sufficienti, se non proprio abbondanti. Il pane lo facevano con la farina di una
varietà di grano che cresceva anche lassù. Con uva fragola facevano vino in abbondanza.
Non cresceva l’ulivo nella valle, ma l’olio lo barattavano facilmente con patate, che facevano
invidia a quelle della Sila, e con i semi di anice, molto richiesti, venduti ad once e pagati
a caro prezzo nelle marine ioniche. Persino il pesce, sempre fresco, avevano a Valpetrosa: il
tumultuoso torrente non era soltanto prodigo d’acqua pura con la quale irrigare gl’innumerevoli
orti, ma era anche inesauribile riserva di anguille che crescevano grosse nelle anse della
fiumara; e di granchi, numerosi e ben pasciuti sotto le pietre; e soprattutto di trote che non
mancavano mai perché a nessuno lassù veniva in mente di estinguerne la riserva con mezzi
delittuosi di pesca proibita e letale.
Molto praticato era l’allevamento del bestiame, a cominciare dalle innumerevoli galline,
sparse a razzolare nel terreno tra le case, che davano uova e carne in abbondanza. E numerosi
erano i pecorai, perché l’erba non mancava mai in quell’angolo di terra mediterranea. Le migliaia
di pecore e di capre assicuravano alle cinquecento persone carne a piacimento, e latte
prezioso, e saporiti formaggi tra cui il gustoso pecorino.
I pastori a Valpetrosa si può dire che costituissero una corporazione, libera e prospera,
svincolata da pericolosi paletti cui sono soggetti i colleghi delle marine. Si potevano considerare
non solo benestanti ma anche privilegiati, in quanto, consistendo il loro lavoro al
pascolo nella sola sorveglianza degli animali, mentre i quadrupedi brucavano, loro potevano
dedicarsi… alla musica, mediante lo zufolo o l’organetto a bocca o lo scacciapensieri
siciliano; oppure, come facevano i più, a lavori d’intaglio per creare cucchiai, conocchie,
eleganti bastoncini.
Il più noto, tra i pastori di Valpetrosa, era Carmelo Rittà, detto u Rre, perché primeggiava
tra i suoi colleghi per il notevole dinamismo, per il suo saper fare nel portare a termine affari
lucrosi, perché sapeva imporsi un po’ su tutto e su tutti, ed anche perché il suo gregge era il più
numeroso e il più produttivo.
Rittà non aveva paura di nulla nel piccolo verde regno dove veniva soprannominato Rre.
Non era cattivo né violento, ma nessuno nella valle rischiava di provare se lo fosse. Era ossequioso
e disponibile all’occorrenza nei confronti di chi non gli calpestava i piedi. Aveva paura,
però, delle vipere. Non per sé, ché aveva imparato fin da bambino a farle fuori al primo apparire.
Aveva una mira infallibile, e con l’immancabile nodoso bastone tirava diritto e scattante
alla testa del rettile velenoso, anche se già in movimento di assalto. E non ne falliva una. Temeva
soltanto per i suoi tre figli, a ciascuno dei quali, appena superati i dieci anni, aveva affidato
il pascolo e la responsabilità di un gregge. E la vale era, purtroppo, il regno delle vipere prima
e più che di Carmelu u Rre.
Un giorno, uno dei tanti che si succedevano tutti più o meno uguali e senza particolari
scossoni, Carmelo decise, all’improvviso e senza alcun motivo, di dirigersi con il gregge
nella zona dove era certo di trovare il più piccolo dei suoi tre figli. Cercò di contattarlo a
distanza, con un fischio acuto e continuato al quale aspettava la risposta, che non venne.
Preoccupato, spronò i quadrupedi ad una corsa e si mise a correre anche lui nel timore di
trovare all’arrivo qualcosa di grave. E difatti la sua creatura era sdraiata ai piedi di un’elce,
con una gamba già gonfia per il veleno, e accanto, morta di bastonate, la vipera che lo aveva
aggredito e morso alla caviglia. Tra una bestemmia e l’altra il pastore pensò a Cristoforo
e alla sua cavalla per il trasporto del piccolo sino al capoluogo, ma abbandonò all’istante
l’idea: nel tempo impiegato per cercare Cristoforo, e poi per raggiungere il paese, il veleno
-pensò il pastore- sarebbe arrivato al cuore, provocando la morte immediata. No! Bisognava
fare qualcosa, subito. U Rre caricò il bambino sulle spalle e raggiunse di corsa la più vicina
sorgente d’acqua fresa e limpida alla quale spesso attingevano per bere. Estrasse dalla tasca
l’immancabile coltello e con l’affilata lama allargò la piccolissima ferita che aveva fatto la
vipera alla caviglia del bambino, e cominciò ad uscire del sangue avvelenato. Per facilitare
l’uscita del sangue il pastore succhiava con le labbra, sputava il sangue per terra e si lavava
la bocca alla fontana. Ripeté più volte l’operazione mentre con tutt’e due le mani stringeva
forte la gamba spingendo verso la fessura creata dal coltello per ottenere la fuoruscita del
sangue. Smise di “mungere” quando la gamba non aveva più alcun gonfiore. Tamponò il
taglio con un lembo della propria camicia; legò il panno con un laccio delle scarpe e ripose
il bambino sulle spalle incamminandosi per viottoli a passo veloce verso casa.
Il piccolo Damiano era salvo.


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