Data: 30/04/2019 - Anno: 25 - Numero: 1 - Pagina: 51 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
L’OMU GELÙSU MORA CORNÙTU |
|
Letture: 248
AUTORE: Giovanna Durante (Altri articoli dell'autore)
L’uomo, si sa, è spesso in preda a sentimenti negativi tra cui quello della gelosia, uno dei peggiori, dettato dal timore di perdere persone care, erroneamente ritenute di esclusiva proprietà. È tipico il caso di qualche marito morbosamente geloso della moglie ma anche di un padre della propria figlia o del f idanzato della propria ragazza, e viceversa. Da sempre l’uomo non sopporta che la donna possa non essere d’accordo con le sue idee maschiliste, che possa ragionare con la propria testa e decidere autonomamente come organizzare o disorganizzare la propria vita; ed è spesso da qui che oggi si arriva alle separazioni, al facile divorzio, alla famiglia allargata,… mentre i figli innocenti hanno la peggio, sballottati tra i due genitori che vivono separatamente; per non parlare poi del femminicidio. Un tempo si diceva che “l’uomo geloso muore cornuto” per asserire l’inutilità della gelosia che si ritorce su chi la esercita; ed essere considerato cornuto, ossia tradito da una donna nei sentimenti più intimi, per l’uomo di un tempo era qualcosa di molto vergognoso, un’offesa da lavare eventualmente col sangue. Anche oggi quell’espressione è in uso, seppure genericamente e può tradursi in tal modo: “Più ci tieni, peggio è.” E siccome nel nostro mondo moderno ci si unisce e ci si separa in tutta naturalezza e i sentimenti in genere tendono ad essere sempre più fragili, il tradimento è visto in un contesto piuttosto superficiale. Anticamente il capofamiglia esercitava la propria autorità indiscussa, cercando di tenere sotto controllo il più possibile le donne, in particolare le figlie, nel tentativo di difenderle da incontri sconvenienti, ma l’astuzia e la tenacia sono di genere femminile, per cui molte donne riuscivano a trovare spesso un sistema più o meno ingegnoso per disattendere gli ordini dell’uomo di casa e potersi incontrare con l’innamorato. Ciò naturalmente succedeva anche alle donne sposate. Nei nostri paesi calabresi, come altrove, quando ancora nelle abitazioni non vi era l’acqua corrente, le donne quotidianamente dovevano recarsi alla più vicina fontana pubblica per rifornire dell’acqua necessaria l’intera famiglia e, mentre aspettavano il loro turno per riempire gli appositi recipienti, ne approfittavano per adocchiare furtivamente i giovanotti che si fermavano a dovuta distanza in cerca, a loro volta, di un approccio con qualcuna di esse. Sicuramente quello era un luogo di socializzazione ma anche di trasgressione. A questo proposito ricordiamo che a Badolato, nel rione Jusutèrra, poco distante dalla fontana di via Siena, esiste una grossa pietra ancora oggi ricordata come “a petra d’annammuràtu”, perché c’era sempre qualche innamorato che vi si sedeva per sbirciare. Anche la fiumara era un luogo buono per il corteggiamento giacché le donne andavano periodicamente per lavare la biancheria personale e di casa (lenzuola, coperte, tovaglie, ecc.). Un altro luogo d’incontro occasionale era il piazzale della chiesa dove i giovani, vestiti a festa, sostavano per assistere al passaggio delle ragazze che si recavano alla Messa domenicale; era là che a volte avveniva lo “scandaloso” bacio rubato in pubblico; in questo ed in altri casi del genere, il padre ed i fratelli della giovane “violata” si sentivano offesi in pieno nella loro dignità e, pur di riscattare il loro onore, rivendicavano un matrimonio riparatore, con o senza l’approvazione della ragazza. Nel caso in cui il maschio di famiglia ostacolava in tutti i modi il corteggiamento della propria f iglia, poteva succedere che i due innamorati concordassero di incontrarsi direttamente nella casa della giovane, in assenza dei genitori ma non entrando dalla porta d’ingresso. Per chi non lo sapesse, le case dei contadini per motivi vari si sviluppavano quasi tutte in altezza ed erano costituite da due o tre piani sovrapposti, a volte quattro, comunicanti all’interno con delle scale di legno. Al piano terra vi era il catòju usato come deposito per attrezzi da lavoro, sacchi, cesti, damigiane, giare varie e recipienti di conserve alimentari. Nella grotta, in genere ricavata scavando la parete di fondo del locale, trovavano posto le botti del vino. Il primo piano (mezzanino), spesso con ingresso separato che dava sbocco sulla strada in salita, era usato come deposito delle derrate alimentari, conservate generalmente nei vari casciùni (grosse cassapanche). Al secondo piano si trovava la stanza da letto con l’ingresso principale su altra strada. All’ultimo piano vi era u salàru, un sottotetto coperto da tegole, dove troneggiavano u foculàru, usato per cucinare, e u cocipàna, per cuocere il pane fatto in casa. Sul tetto non poteva mancare una specie di lucernario, detto fanò, piccolo vuoto ricavato con un’apposita disposizione di alcune tegole che consentivano l’uscita del fumo e l’entrata della luce ma non dell’acqua piovana; ed era proprio dal fanò che il baldanzoso innamorato, arrampicandosi sul tetto e spostando alcune tegole, si calava direttamente nel salàru dove era atteso dalla ragazza. Allo stesso modo se ne usciva, sicuro di non venire scoperto, anche se i familiari fossero rientrati in casa all’improvviso. Ma “il diavolo -si dice- fa le pentole e non i coperchi”, perciò i vicini di casa della ragazza furbetta riuscivano prima o poi a smascherarla, facendo diventare quello che doveva essere un segreto, un vergognoso episodio di dominio pubblico, ed assegnando al genitore geloso il titolo di cornuto, certamente non di suo gradimento. Fatti di questo tipo, che potevano avvenire sia di notte che di giorno, non erano poi molto rari: l’ultimo di cui si è a conoscenza si è verificato negli anni Sessanta dello scorso secolo, e si è concluso felicemente con il matrimonio dei due innamorati che ancora oggi possono raccontare la loro storia d’amore con comprensibile orgoglio ma anche con un pizzico di disappunto. Giovanna Durante |