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Autore:     Data: 31/12/2015  
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Data: 30/04/2021 - Anno: 27 - Numero: 1 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

MACERIE DI RICORDI

Letture: 677               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

Avanti marcc̓… Un due un due un due… Alt. Parole-comandi che stanno perdendo ogni
senso anche nelle Caserme di Fanteria dell’Esercito Italiano, l’Arma più appiedata tra le Forze
Armate, sempre più tecnicizzate e quindi più aperte alle possibilità e alle esigenze di un mondo
-compreso quello militare- in continua evoluzione. Parole-comandi che, in un preciso periodo
storico nazionale, si affiancavano, quasi intercalari, a canti quali Faccetta nera, di esaltante
sapore coloniale, o Fischia il sasso, di patriottica ingerenza dannunziana. E a completare, a mo’
di riposante pausa tra gli obbligati esercizi ginnici, l’ascolto da disco rotante su grammofono a
manovella, del discorso del Duce tenuto a Milano nel primo anniversario della Marcia su Roma.
Tale “Scuola”, di educazione fisica, politica, militare… risale, come è facile immaginare,
agli ultimi anni Trenta e all’inizio degli anni Quaranta dello scorso secolo. Una Scuola di
Partito e di Stato esistente in ogni centro urbano d’Italia, dalla più grande città al più piccolo
borgo. L’organizzazione e la realizzazione, capillare e sistematica, erano a cura dell’O.N.B.
(Opera Nazionale Balilla), poi confluita nella poderosa G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio).
Il caso di cui si narra è relativo ad un popoloso paese collinare del profondo Sud. La sede
“scolastica” era situata nella periferia ovest e consisteva soprattutto in un grande piazzale,
quasi un piccolo campo sportivo, sul quale prima di un devastante terremoto insisteva un
grande convento seicentesco domenicano, del quale, al tempo, c’era ancora qualche vano e la
grande e bella chiesa che gli abitanti del luogo ammirano e frequentano ancora oggi. Un luogo
pianeggiante e soleggiato la cui superficie favoriva la ripartizione dei frequentanti in tre diverse
Sezioni: i Figli della Lupa (6-8 anni), i Balilla (8-14 anni), gli Avanguardisti (14-18anni). I
più “anziani” -solo maschi- costituivano un gruppo frequentante il corso “premilitare” per lo
studio delle armi, il moschetto in particolare.
Ogni “Scuola” aveva, ovviamente, i suoi docenti, a scelta, ovviamente, dei superiori
gerarchi. Ciò vale anche per la Nostra, in cui gli istruttori erano tre, giovani, eleganti nella bella
divisa del proprio ruolo, con le gambe fasciate da gambali di nero cuoio, con un particolare
copricapo, la baionetta alla cintura e un fazzolettone sulle spalle ricadente sul petto. Tre persone
appassionate, orgogliose, altere. Anche perché unici in paese. Dei tre, il più avanti negli anni
ma ancor giovane e aitante, con il grado di sergente era addetto al corso per i Premilitari:
il termine più ricorrente che si sentiva in quell’angolo del piazzale era “molla a spirale di
trentadue giri e mezzo”, a proposito del moschetto allora in dotazione ai soldati italiani. Ad
altro istruttore, anche lui non più che trentenne, visceralmente appassionato del suo stato, con
il grado di caporale toccò istruire gli Avanguardisti. All’altro istruttore, promettente artigiano
appena ventenne, non meno orgoglioso degli altri due, leggermente claudicante, ma quanto
bastava per renderlo più interessante agli occhi delle ragazze da marito, toccarono i Balilla,
ai quali si dedicava con lo spirito che il clima politico imperante stimolava ed esigeva. Nel
suo lavoro da volontario si comportava, pertanto, in modo adeguato all’ideologia dominante
sposata in pieno con l’entusiasmo del giovine ventenne. Quando era in divisa si compiaceva
persino di tenere la mano destra sul manico della baionetta alla cintura, giocherellandovi di
tanto in tanto, in presenza di altri. Un’attenzione particolare, poi, la dedicava al fazzolettone
della sua divisa, e la motivazione c’era: era un regalo della sua fidanzata, da lei stessa tessuto al
telaio, da lei tinto con erbe varie nel colore dovuto. Da brava ricamatrice, con filo dorato aveva
ricamato un Fascio in un lembo che ricadeva vistosamente sul petto, da un lato; dall’altro
lato si notavano ricamate le lettere iniziali del suo nome e cognome. Due oggetti preziosi,
la baionetta e il fazzolettone, che rappresentavano i due suoi grandi amori: la Patria, e la
fidanzata, divenuta poi sua moglie.
Sennonché… La guerra! La guerra che sconvolse il mondo. La guerra che elargì sofferenza e
morte a tutta l’umanità. La guerra che lasciò dietro di sé soltanto macerie, desolazione, miseria.
La guerra, che tra l’altro produsse, quasi àncora di salvataggio, l’emigrazione, diretta, per quel
che riguarda il paese collinare ionico, soprattutto verso l’Argentina e gli Stati Uniti d’America. Fu
ancora una volta emigrazione di massa, che ha interessato anche i nostri tre istruttori: uno si diresse
verso una grande città all’interno dei confini nazionali. L’istruttore degli Avanguardisti emigrò
con la famiglia oltreoceano. Il nostro elegante giovine istruttore dei Balilla, miracolosamente
rientrato sano e salvo dalla guerra, sposò la ragazza del cuore, la tessitrice, la ricamatrice, la
sartina, dalla quale nacque il primo figlio. Ma era ormai ora anche per lui di andare in cerca di una
vita migliore oltre i confini della propria terra per la quale aveva tanto tribolato. Fece le valige e un
giorno d’autunno partì con i suoi da Napoli, con una nave che in meno di un mese di navigazione
li portò oltre l’oceano, in un mondo che non era loro. Nel capiente baule gli oggetti necessari e
pochi altri obbligati dalla necessità di non dimenticare. Nel cuore la sofferenza di chi si stacca per
sempre dai genitori, dai fratelli, dagli amici, da un mondo per la cui costruzione si era lavorato e
sudato. E il dolore di dovere abbandonare, in particolare, due oggetti che rappresentavano per lui
parte essenziale della sua esistenza di cittadino di un’Italia bella e grande ormai scomparsa. La
tanto accarezzata baionetta e il bel fazzolettone con i mai abbastanza ammirati ricami. Doveva
necessariamente disfarsene: il clima socio-politico del tempo glielo imponeva. Poteva, pertanto,
riporli in un sito nascosto, in attesa di un giorno che non riusciva a immaginare quanto potesse
essere lontano. O se mai fosse arrivato. E pensò al piccolo appezzamento di terra, coltivato a
vigneto, che la famiglia possedeva in alta collina, lontano da centri abitati e da luoghi di abituale
frequentazione. Si fece accompagnare in automobile e percorse l’ultimo tratto faticosamente a
piedi, per un viottolo in salita. Rimosse non poche pietre di un muro a secco addossato a una
casetta rurale, palmento per la vinificazione sul posto. Sistemati i due oggetti dentro un sacco
di fibra di ginestra che depose nella parte centrale del muretto, incastrò nuovamente le pietre
rimosse come meglio possibile. Sudato ma contento del lavoro fatto, salutò con un bacio lanciato
dalle labbra con la mano destra, e ridiscese sulla strada rotabile con l’amara sensazione di aver
abbandonato tra i sassi un caro tesoro.
*****
Quarantacinque anni dopo, alla vigilia del nuovo millennio, il primo viaggio in Italia, al
paese natìo, alla ricerca di quanto è rimasto di quella grande parte di sé abbandonata con la
lontana spartenza. Il giorno successivo all’arrivo l’ex istruttore dei Balilla della G.I.L. del
paese collinare ionico, lascia in casa la moglie e si fa accompagnare al Vignale, in alta collina,
aiutandosi nella salita con un robusto bastone, sino al palmento, che trova diroccato e senza
tetto: solo calcinacci e qualche tegola rotta. L’armacèra (muro a secco) addossata al muro della
casa rurale, era scomparsa insieme al muro che la sorreggeva: solo poche pietre sparse nella
ràsula (terrazza) sottostante. Nessun segno, tutt’intorno, di tela di ginestra o di metallo. Il tesoro
del nostro buon Camerata non c’era più: lo aveva divorato il tempo, che tutto ingoia e cancella
Lacrime amare bagnavano l’arido viottolo nella discesa, denunciando l’inutilità anche delle
più grandi speranze.
Qualche giorno ancora e poi il ritorno in terra straniera, dove chiudere per sempre con ogni
passato.


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