Data: 30/04/2015 - Anno: 21 - Numero: 1 - Pagina: 9 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
MAMMA, I CRISTIANI! Fortificazioni della costa ionica |
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AUTORE: Ulderico Nisticò (Altri articoli dell'autore)
Una storiografia piagnona masochistica ama raccontare la lunga vicenda delle incursioni turchesche come una serie di successi da parte del nemico e una continua fuga da parte nostra; e, quel che è peggio, la cosa pare lodevole e politicamente corretta. Direi che le cose non andarono così, e, molto sinteticamente, qui raccontiamo come la costa ionica calabrese, e, più in generale, il Reame di Napoli abbiano affrontato l’emergenza, chiamiamola così, vincendo la lunga guerra. Se si può scherzare sulla storia, furono molte di più le volte che Turchi e Barbareschi dovettero gridare “Mamma, i cristiani” della trita battuta del contrario! Bastino per tutti il Grande Assedio di Malta del 1565 e la netta vittoria navale di Lepanto del 1571, cui parteciparono moltissimi calabresi, e poi eressero chiese alla Madonna della Vittoria, e ancora oggi delle donne portano questo nome. Nel 1480 una spedizione turca conquista di sorpresa Otranto, e uccide ottocento cittadini al loro rifiuto di abiurare. Immediato è l’intervento dell’esercito napoletano, guidato dall’erede al trono Alfonso duca di Calabria; comandava la cavalleria, e dopo atti di valore morì martire, Nicolò Picardo da Paola, l’amico di san Francesco: in loro onore si dice ancora, di due stretti amici, “Cicco e Cola”. Liberata Otranto, il Regno iniziò a dotarsi di torri d’avvistamento, o cavallare, poste in luoghi elevati e in vista l’una dall’altra; di proprietà dello Stato, erano gestite a carico dei comuni; ne era responsabile un caporale, e i cavallari s’incaricavano di avvertire le genti a mettersi in salvo. È agevole riconoscere alcuni dei nostri cognomi, e possiamo aggiungere Bombardiere, Torriero, Torrisi, Turrà… Le torri di avvistamento non erano, di solito, attrezzate per un vero combattimento, e non era quella la loro funzione. La difesa attiva era affidata a soldati regi o feudali, e, all’occorrenza, a volontari: così leggiamo che il principe di Bisignano, alla testa di trecento archibugieri, respinse un forte attacco turco; e il barone Gaspare Toraldo di Badolato, reduce da Lepanto, accorse a difendere Monasterace… Le incursioni tuttavia furono frequenti e assai dannose; e non era possibile rendere impermeabile tutta la costa, di fronte ad attacchi improvvisi e che non rivestivano il carattere di un’offensiva militare formata, ma piuttosto quella delle rapine, e soprattutto dei rapimenti: donne da adibire alla riproduzione, in terre asiatiche e africane sempre esposte allo spopolamento; bambini da allevare per il remo o la guerra; abbienti di cui chiedere il riscatto… I monaci guerrieri dell’Ordine di Santa Maria della Mercede, o Mercedari, facevano da intermediari, o raccoglievano denaro per ricomprare i prigionieri. L’ultimo rapito che si ricordi risale al 1815, un Dominijanni di S. Andrea, che fuggì con l’espediente di procurare noccioline per il suo padrone: i discendenti portano il soprannome di Turchi. Non tutti, a dire la verità, volevano essere liberati; e molti dei più feroci e abili capi musulmani erano cristiani convertiti all’islam: Kar ed Din detto Barbarossa, Ulugh Alì, il pascià Scipione Cicala che nel 1594 saccheggiò Reggio, poi Badolato e Soverato con il convento della Pietà. Il nerbo della difesa costiera erano i grandi castelli, la cui funzione militare era sì di respingere attacchi, e lo fecero con grande successo Roccella e Castelvetere (poi Caulonia); ma soprattutto la deterrenza: nessuna incursione poteva rivolgersi in occupazione, fin quando alle spalle ci fossero grandi fortezze con uomini armati. Questa è la ragione strategica di una possente fortificazione posta sul mare come Castella di Isola C. R., collegata al vicino formidabile maniero di Crotone; e alle spalle quello di S. Severina. Castelli sorgevano anche a Belcastro e Simeri. Catanzaro era una città fortezza, come provò la vittoriosa difesa del 1528 contro i Francesi. Alcuni castelli erano regi; alcuni altri, quelli feudali, vennero ristrutturati per adattarli ai criteri della guerra con artiglierie: lo si vede bene a S. Severina, Squillace, e nella Bagliva di Malta a Monasterace. Le fortezze erano dotate di artiglierie di calibro e gittata diversi; si preparava artigianalmente la polvere da sparo, ricavando il salnitro dallo sterco di maiale: battutacce irriferibili hanno tramandato anche questa memoria. Quando quelle armi divennero obsolete, o non si resero più necessarie, avranno subito ogni immaginabile trasformazione e riuso. A Crotone, nel vecchio porto, si notavano delle curiose bitte d’ormeggio; riportate alla luce, si rivelarono culatte di lunghi cannoni, e oggi si possono ammirare nel castello. I paesi collinari erano già dai tempi bizantini dei “kastellia”, cioè, in neogreco, borgo fortificato di arduo accesso e popolati da gente decisa e spiccia: credo il migliore esempio sia Badolato; ma è nella memoria che ospitasse un castello; e così sembra di S. Andrea e di quella che poi divenne la chiesa di S. Sostene; mentre qualche anziano chiama ancora Satriano “a Picocca”; Guardavalle è un nome parlante. Di castelli di Petrizzi, S. Vito e Chiaravalle parla il Barrio nel 1570; l’occhio esperto si accorge di un castello di Soverato, l’edificio di fronte piazza Don Gnolfo. Altre fortificazioni meno imponenti ma non trascurabili costellavano il territorio; oggi, se rimangono, sono stati inglobati in altri edifici, in genere ecclesiastici: fu una sorta di dismissione dello Stato, quando il pericolo turco cominciò a farsi sporadico. I campanili della Misericordia di Davoli e della Matrice di Cardinale sono palesemente dei torrioni; e così la Roccelletta propriamente detta, la piccola chiesa al bivio dell’ex 106 per Borgia. Sono ancora ben visibili, nel Golfo, accanto a qualche torre cavallara, il Casino Pepe o Lucifero a Squillace; S. Pantaleone, il Cece e la Grangia di S. Anna a Montauro; Muscettola a Montepaone Marina; la Pietà un tempo di Soverato, oggi in agro di Petrizzi; le mura di Soverato “Vecchio”… Occorrerebbe un lungo e articolato studio; rimandiamo intanto ai lavori del Valente e del Faglia e dell’Istituto Italiano dei castelli. Riflettiamo qui, in estrema sintesi, sulle conseguenze politiche e sociali della lunga guerra contro i Turchi. I paesi rimasero di necessità collinari, e solo verso il XVIII secolo iniziò, passo passo, la riconquista della costa. Lo Stato e le comunità locali dovettero farsi carico di spese, sempre più pesanti mentre veniva meno la prosperità del XVI secolo. A difendere l’esistente, i nostri avi furono valentissimi. Mi verrebbe voglia di un gioco etimologico, ma non sarebbe politicamente corretto. Chi vuole, rifletta su queste due parole greche: anèr, uomo virile; agathòs, che, per l’appunto, vuol dire valente; e le metta assieme in una parola sola un poco modificata dal dialetto. Che scoperta curiosa! Fu una guerra vinta, e sarebbe ora di dirlo; ma con una strategia quasi solo difensiva, quella che tecnicamente si chiama difesa passiva: e ne resta una traccia profonda nella mentalità calabrese, che non mostra molto spirito di iniziativa e quasi respinge il nuovo. La controffensiva fu tarda; nel 1832 il Regno di Sardegna e le Due Sicilie si accordarono per una spedizione contro Tunisi, ottenendo dal bey che frenasse la pirateria. Il resto è storia, e, purtroppo, cronaca dei nostri tempi. |