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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/08/2021 - Anno: 27 - Numero: 2 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

POSÌHṚA E PPASTA (1) A PRANZO CON IL CONTE

Letture: 913               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

Il titolo nobiliare non risaliva, in verità, all’impero di Carlo Magno, ma già nel sedicesimo
secolo l’altoborghese Famiglia Rapopa era tra le più in vista e frequentate famiglie della colta
città del Sud dove vivevano e operavano. L’ingresso nel superiore e paludato e privilegiato
mondo della nobiltà avvenne più tardi, quando anche le condizioni economiche divennero nel
tempo notevolmente più elevate: e furono Conti di Sant’Arcibaldo.
I nuovi nobili si distinsero presto in città e nella regione perché persone illuminate,
magnanime, scevre di alterigia, pur senza mai superare gli obbligati limiti tra le varie classi
sociali. Evidenziarono una non comune apertura verso i problemi filantropici, cultuali, sociali,
politici. Conservarono la residenza nel piccolo paese dove avevano costruito la monumentale
dimora tipica dei latifondisti, ma per la vita mondana e di rappresentanza, a differenza di quasi
tutti gli altri blasonati, non costruirono il palazzo nella Capitale del Regno, ma scelsero Roma,
la Caput Mundi, per potere più ampiamente spaziare, respirare aria universale, crescere in modo
più consono al ruolo di nobili di alto livello. Non a caso, probabilmente, furono Consoli di uno
Stato sudamericano, e uno di loro fu Deputato al Primo Parlamento del Regno d’Italia.
All’inizio del diciannovesimo secolo, quando i Conti di Sant’Arcibaldo erano al massimo
del loro splendore e della loro rilevanza sociale, nacque in Roma l’ultimo rampollo, di sesso
maschile, al quale fu assegnato dagli augusti genitori il nome di Franco Maria, in ricordo di
un loro antenato al quale la storia di famiglia faceva spesso riferimento. Ovviamente, all’età
scolare al piccolo conte fu fatto frequentare un Convitto nazionale, il migliore della regione,
una città dove la famiglia possedeva grandi proprietà terriere, e due palazzi, uno in città e
un altro quale fulcro e centro direzionale dellʼattività agricola. Un ambiente ideale, quindi,
perché il giovane studente, pur vivendo in convitto, potesse godere della saltuaria vicinanza
della famiglia, dell’aria pulita della campagna, del contatto con gente meno sofisticata di
quella di città. Ogni domenica, difatti, il giovane Franco Maria veniva rilevato in convitto
e portato in calesse a trascorrere la giornata nella fattoria, a contatto anche con gente molto
umile.
Una fanciullezza, una pubertà, una prima gioventù in letizia e serenità, senza scossoni di
sorta, oltre ai normali turbamenti che la vita comporta. Il giovane avanzò così negli anni da
persona elegante ma non affettata, cordiale ma scarsamente confidenziale, sicuro di sé ma mai
altero e sprezzante, sereno ma non taciturno. Così anche dopo la laurea conseguita a Roma,
ovviamente senza esercitare la professione, come usava in passato.
A metà del secolo ventesimo la scomparsa del padre, galantuomo d’altri tempi, anche se in
qualche modo invischiato in politica: è stato anche lui, come il suo antenato, deputato del Regno
d’Italia. Toccò quindi all’ottavo conte di Sant’Arcibaldo prendere le redini della Famiglia. E
don Franco non si tirò indietro, pur se il suo carattere non era certo il più adatto, con piuttosto
debole grinta, a guidare una grande azienda qual era ormai quella dei Conti. Fu pertanto quasi
costretto ad allontanarsi spesso da Roma per scendere a Sud, al paesello d’origine, almeno
per vigilare sul comportamento dei suoi amministratori, incaricati, collaboratori. Quaggiù,
infatti, c’era il fulcro della grossa azienda agricola, e quindi la maggiore risorsa per le esigenze
economiche della Famiglia, perché, sistematicamente ad anni alterni si verificava la produzione
abbondante delle olive, che venivano molite sul posto a centinaia e migliaia di macine(2), in
un frantoio, il primo del luogo a trazione non più animale, ma a motore. Nella tarda mattinata d’un giorno d’autunno di uno dei primi anni Settanta, con la sua non
vistosa vettura guidata dall’impeccabile autista romano, arrivò giù, alla villa sul mare. Sceso
dalla vettura si diresse a passo deciso verso il rumoroso frantoio in azione per salutare per primi
i frantoiani che già lavoravano fin dalle prime luci dell’alba. “Buongiorno, ragazzi”, disse ad
alta voce, con tono coinvolgente e cordiale, ma senza che nel timbro ci fosse il benché minimo
segno di allegria e di festosità. Avutone la calorosa risposta, continuò con la stessa tonalità:
“Fra poco è ora del pranzo: che mangiate oggi?” Non erano pochi i presenti: i tre frantoiani,
il vice amministratore degli affari locali, l’autista della piccola vettura aziendale, il bovaro, il
guardiano salariato fisso. Non poteva mancare il dipendente più fiscale dell’azienda, l’uomo
che, dai numerosi affittuari che si presentavano al frantoio per la consegna delle olive nella
quantità “stimata” e concordata (leggi: imposta) all’atto del contratto di affitto, pretendeva che
sul colmo già realizzato sul recipiente di misura fosse aggiunta una sua larga manciata di olive,
quasi fossero il necessario alimento per il sostentamento dei suoi poveri figli, che non aveva.
Il più “coraggioso”, il più anziano dei frantoiani, rispose a nome di tutti: “Chi bolìti, Conti,
avìmu na bella pignàta ’e posìhṛa, e n’ambogghjàmu puru u pana cu l’ogghju vostru chi non ni
manca.” (3) Il signore, allora, fece chiamare il guardiano della villa e anche cuoco all’occorrenza.
Gli mise tra le mani una cartamoneta e gli ordinò di andare subito a comprare della pasta ditalini
da consumare insieme ai fagioli e una provoletta da mangiare come secondo piatto. Poi, rivolto
ai presenti e ad alta voce perché sentissero tutti nonostante il rumore del motore: “Se non vi
dispiace, oggi mangerò con voi.” Stupore sulla faccia di tutti, ma nessun commento: nessuno se
lo sarebbe aspettato, e nessuno, però, si è meravigliato oltre misura.
È stato un pranzo tranquillo, sereno, anche dialogato. Se non fosse stato per l’abbigliamento
non da lavoro, nuovo e pulito, nessuno avrebbe sospettato il nobile tra i nove commensali. Il
Conte era vivo e partecipe alla rara convivialità, senza far pesare in alcun modo la sua presenza.
E sorseggiava di tanto in tanto qualche goccia del suo buon vino, e cincinnava al brindisi che
qualche frantoiano azzardava. Ma non era allegro; si notava persino che a tratti era distratto, come
assente, come lontano da quel luogo, e da quanto lì di poco normale avveniva. Tuttavia parte del
Conte era lì, a mangiare posìhṛa e ppasta con i suoi frantoiani, senza partecipare alle loro risate,
ché non era comunque suo costume, ma senza neanche lesinare qualche sorriso.
*****
Non era trascorso un mese da quello strano avvenimento quando da Roma arrivò a Sud la
notizia che il Conte Rapopa di Sant’Arcibaldo aveva posto fine, per libera scelta, alla propria
esistenza.
Vincenzo Squillacioti
NOTE
(1) Fagioli e pasta.
(2) Quantità di olive per ogni molitura (tomoli 4,5 corrispondenti a q.li 2,30 circa).
(3) Che volete, Conte, abbiamo una bella pignatta di fagioli e ci inzuppiamo il pane con il vostro olio
che non ci manca.


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