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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/04/2008 - Anno: 14 - Numero: 1 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

PRANZO NATALIZIO

Letture: 1179               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

A mònaca ’e pannu russu (1) era stata la prima ad entrare in chiesa, dove anche quella mattina, come ormai da anni, avrebbe sentito Messa dopo aver provveduto a preparare nella sacrestia i paramenti del Parroco per il sacro rito dell’Eucaristia. Poi arrivarono alla spicciolata tutte le donne della Jusutèrra (2), ad eccezione di sole quelle che non potevano muoversi dal letto perchè malate. Anche gli uomini, contadini e artigiani, si recarono in chiesa quella mattina, come fosse Domenica, perchè non potevano mancare di rispetto al barone non partecipando alla Messa in suffragio del suo più giovane figlio rapito prematuramente al Cielo un anno prima. La chiesa era piena di gente come nelle grandi occasioni, c’era anche il farmacista e la moglie, e il medico, e, al completo, il personale di servizio al palazzo del barone. A collaborare con il celebrante, in prima fila tra i fedeli, donna Rosina e donna Teresina, le due sorelle nubili che frequentavano abitualmente il convento dei Padri Riformati, ma quel giorno era doverosa e necessaria la loro presenza alla chiesa di San Nicola.
Cenzu e Cola (3) avevano saputo di quell’avvenimento, eccezionale per il loro quartiere, e avevano quindi programmato per quella data e per quell’ora la cattura. Era l’occasione ideale, perchè al sicuro da occhi indiscreti: anche i bambini durante la funzione erano in chiesa, persino i neonati, in braccio alle loro mamme. Dalla loro postazione, ben defilata, videro infine entrare il Mutilato, solitamente l’ultimo a varcare la soglia della chiesa.
Il gatto di donna Teresina era, forse, il più grasso del paese. Secondo loro, esperti in stime del genere, pesava almeno quattro chili. Il metodo era ormai collaudato, e tra i più efficaci che conoscessero i non pochi giovani del paese che riservavano particolare attenzione a quest’amico dell’uomo. Appena iniziata la Messa, che non sarebbe stata breve perchè il Parroco per l’omelia non avrebbe risparmiato tempo nel tessere le lodi del giovine scomparso e della sua illustre famiglia, i due scesero con passo felpato sino alla casa di donna Teresina, che distava non più di cento metri dalla chiesa. Si avvicinarono alla finestra del piano terra, chiusa dall’interno ma con gli scuri aperti, e, stando abbassati, poggiarono sul davanzale un topolino di cartone pressato, giocattolo tra i pochi dei bambini. Mediante uno spago legato ad una zampetta imprimevano al topolino un movimento allo scopo di animarlo. Il gatto, appena scorse il topo saltò sul davanzale, e per poco non ruppe il vetro nel tentativo di catturarlo quando lo vide allontanarsi. Cola portò allora il topolino al buco praticato lateralmente nella parte bassa della porta per fare entrare ed uscire, a porta chiusa, i gatti e le galline della casa, e provocò con un sasso dei rumori per attirare da quella parte l’attenzione del micione. Cenzu, invece, teneva aperto all’imboccatura un solido sacco di canapa: il gatto corse di scatto verso la preda e si trovò nel sacco immediatamente chiuso con una cordicella:E via di corsa.
Passarono sul retro della chiesa mentre don Ciccio ancora predicava. Ostentando goffamente indifferenza, nonostante il mobile fardello sulla spalla, raggiunsero un porcile abbandonato di cui i due e pochi altri amici fidati potevano disporre all’occorrenza. Assicurarono il sacco ad un robusto gancio di ferro che sporgeva da una parete e si chiusero la porta alle spalle con un lucchetto che avevano rimediato tempo prima.
All’ora in cui la Messa finiva i nostri due giovani si trovavano già alle loro botteghe artigiane per fare il loro mestiere di discepoli-collaboratori, ruolo che, malpagati, cercavano di svolgere senza far andare giornalmente in bestia i loro rispettivi summàstri (4).
Trascorsero senza storia quel giorno e il successivo. Per la sera del terzo giorno, vigilia di Natale, i due si diedero appuntamento non ad uno dei soliti posti, ma direttamente al porcile abbandonato dei Monacèhr1i. (5) Il sacco era dove l’avevano lasciato, e l’inquilino era ancora vivo, e miagolava con un fil di voce. Cenzu e Cola che, nonostante ogni contraria apparenza, avevano il cuore tenero e aborrivano la violenza, pensarono per un attimo di concedere al felino la libertà e la vita, ma l’idea di andare incontro ad un altro Natale magro ebbe il sopravvento sul momento di debolezza, e, presa da un angolo una mazza di legno con cui si maciullava in fiumara la ginestra bollita per fare la stoppa e quindi il filo per tessuti, misero a tacere la bestia per sempre. Saltellando come caprioli nonostante il buio, scesero alla fiumara di Copino dove spellarono il gatto dopo avergli mozzato la testa, lo liberarono delle interiora e delle zampe, e lo lavarono ben bene nell’acqua corrente. Non avevano pensato di portare al seguito un tovagliolo per avvolgerlo, per cui toccò a Cola la sofferenza di estrarre dalla tasca il fazzoletto di seta regalatogli dalla fidanzata per deporvi, nobile sudario, il corpo dell’innocente micio di donna Teresina.
Ma dove cucinarlo? Dove trasformare le morbide carni di un cacciatore di topi in succulento pranzo di Natale? Ecco la difficoltà maggiore per i due giovani amici la mattina del 25 dicembre in piazza San Nicola. I genitori erano ormai tutt’e quattro nel mondo dei più. Sorelle... neanche l’ombra, nè l’uno nè l’altro. Le nonne, presso le quali erano affettuosamente ospitati, si sarebbero fatte scannare, piuttosto che piegarsi a cucinare un gatto. Sapevano bene le nonne, per scienza antica, che il Padreterno commina sette anni di Purgatorio a chi ammazza un gatto, e altrettanti a chi si fa complice nel cucinarlo o nel mangiarne. Avrebbero potuto arrostirlo dentro il porcile, alla meno peggio, e poi mangiarlo come disperati, senza compagnia, in piedi, senza un bicchier di vino, in un clima tutt’altro che natalizio! Che fare?!
Mentre così pensavano sbucò dal Piliero Pietro il Greco, scuro in faccia. I due, che lo conoscevano bene, perchè una volta gli avevano fatto compagnia in un viaggio a Montauro a caccia di topi per il pranzo di Pasqua, gli si avvicinarono e gli chiesero per quale motivo era così arrabbiato. E quello a spiegare, affannosamente a causa della balbuzie, che Francesco, il macellaio, si era dimenticato di mettergli da parte la carne di capretto ch’egli aveva prenotato per quel giorno: un Natale senza carne, quindi, per la sua famiglia. Ai nostri brillarono improvvisamente gli occhi: la Provvidenza aveva appianato la loro difficoltà. Gli offrirono senza indugio il loro gatto, a due sole semplici condizioni: che in casa si parlasse di carne di capretto e che loro due fossero ospiti a pranzo. Neanche a Pietro il Greco parve vero d’aver trovato così presto la soluzione al suo problema.
Comare Rosa, la moglie del Greco, che aveva già preparato la pasta di casa, cucinò la carne felina come non avrebbe saputo fare neanche la migliore cuoca di Badolato.
Al tocco della campana di mezzogiorno, come convenuto, arrivarono Cenzu e Cola e furono fatti sedere ai posti d’onore, lontani dalla porta e dai bambini. A tavola c’erano altri due ospiti, gli anziani Cciccu (6) e Vittoria, parenti senza figli del padrone di casa.
Gli abbondanti piatti di pasta erano coperti da una coltre di pecorino, e i succulenti bocconcini di carne venivano agevolati nella discesa verso lo stomaco da numerosi bicchieri di vino a diciotto gradi, prodotto nella collina della Vite dal compare Cciccu, che quel giorno mangiò e bevve a sazietà, e alla fine del pranzo disse soddisfatto: “Crapèttu sapurìtu comu chihr1u de oja on da mangiài mai nta vita mia (7)”.
Vincenzo Squiilacioti


(1) La suora con l’abito rosso.
(2) Parte bassa del paese.
(3) Vincenzo e Nicola.
(4) Nella bottega d’artigiano il principale, il maestro esperto (da “sor maestro”, secondo Gerhard Rohlfs).
(5) Quartiere periferico del paese.
(6) Francesco.
(7) “Capretto di così buon sapore come quello di oggi non ne ho mai mangiato in vita mia.”


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