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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2015 - Anno: 21 - Numero: 3 - Pagina: 9 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

QUEL DOLCE TEPORE

Letture: 329               AUTORE: Vittorio Sorrenti (Altri articoli dell'autore)        

Con un poderoso calcio il giovane guerrigliero serbo buttò giù la porta e irruppe nell’unico
vano, semibuio e miseramente arredato, d’una stamberga di Srebrenica. Stette a guardarsi intorno
per qualche istante, tenendo saldo dinanzi al petto il fucile mitragliatore del quale andava
fiero, poi fissò minaccioso lo sguardo in un angolo dove, su di un pagliericcio, era raggomitolata
una ragazzetta malamente e scarsamente vestita, scarna, smunta, impaurita, singhiozzante…
«Lurido animale senza fede» - le gridò andandole incontro.
La ragazzetta lo fissò terrorizzata. I fremiti che già le scuotevano il corpo le si accentuarono
e riebbe nitida, ancora una volta, la macabra visione dei suoi cari saltati in aria, dilaniati,
dall’esplosione d’una granata nel piccolo cortile dietro casa, appena la sera prima. Urlò disperata
e si abbandonò intontita sulla schiena, con gli occhi a fissare il soffitto crepato in più punti
e che lasciava filtrare lame di luce resa fioca e ovattata dal nevischio.
Il giovane guerrigliero, per niente commosso, fece scivolare il fucile mitragliatore al lato
del pagliericcio, si abbassò i pantaloni fino alle caviglie e le andò addosso con impeto maschio,
desideroso d’ottemperare all’ordine della “pulizia etnica” impartitogli dal suo comandante,
perché stuprasse e mettesse incinta qualsiasi donna “infedele” gli capitasse. Non aveva alcuna
esperienza sessuale, ma la passività della fanciulla gli facilitò il compito e, ben presto, riuscì
a far suo quel giovane corpo arreso e immiserito dagli stenti, fino a sentire la carne cedere e
consentirgli di penetrarla fino in fondo.
La fanciulla sbarrò gli occhi, trattenne il fiato per la sorpresa e il dolore e lo tenne stretto
a sé con forza per sentire quel fuoco che le aveva detto zia Hamir l’anno prima ché era stata
costretta dal padre a sposare il vecchio commerciante Asnur. “Che dirti Amine – aveva cercato
di spiegarle. – Ho chiuso gli occhi ed ho sopportato. Ma poi, pian-piano ho sentito dentro un
fuoco che mi placò il dolore e lo schifo; un fuoco che mi dava piacere e che m’indusse a pensare
a nient’altro che a me stessa.”
Non lo sentì il piacevole fuoco e prese a smaniare e a lamentarsi debolmente, tenendo fermo
nella mente il desiderio che tutto finisse presto; che quel corpo maleodorante di sudore e
polvere la smettesse di agitarlesi sopra, schiacciandola e addolorandola; che potesse ritornare
subito, nuovamente sola con se stessa, nella sua drammatica disperazione d’orfana; che le
venisse, da quell’uomo, risparmiata la vita perché potesse ricostruirsene una al di fuori delle
atrocità e delle barbarie d’una guerra che non riusciva a comprendere e che suo padre e suo
fratello – morti per la difesa della loro patria – non avevano fatto in tempo a spiegarle.
I corti, affrettati ansimi del giovane guerrigliero serbo la raggiungevano sul collo, sui senini
acerbi, sul viso, fra i capelli… creandole disagio e senso di sconforto e ribrezzo finché non
si sentì d’improvviso pervadere da uno strano, dolce tepore e, pian piano non avvertì anche
che quel tepore le saliva, come una carezza delicata, dal ventre al cuore, dandole, nonostante
tutto, una pacata sensazione di benessere. Ripensò alla zia e dentro sé la ringraziò: certa che
dal cielo l’avesse protetta. E pensò anche all’affetto, alla bontà, alle attenzioni, all’amore…
Tutti sentimenti che credeva sbocciassero soltanto fra la gente che vive in pace. Si sentì illanguidire
e pianse chetamente, d’un pianto diverso, commosso… Non conosceva l’amore e ciò
che dall’amore ne viene.
Non aveva avuto né il tempo, né il modo per conoscerlo l’amore e ora, a contatto con quel
giovane corpo che la sovrastava e la possedeva, sentiva che già disagio e ribrezzo abbandona
vano la sua mente e il suo cuore per lasciare il posto alla convinzione che era lì, su quel pagliericcio,
fra quelle braccia energiche e sotto quel corpo smanioso l’amore, e che quel sentimento
annullava il resto per farla sentire, non violentata, ma amata.
Non conosceva cosa fosse quell’intima febbrile unione e perché dovesse avvenire a quel
modo, ma le sue membra avevano perso l’irrigidimento del rifiuto e, abbandonata, inconsapevole,
smarrita… finì con l’accogliere quel guerrigliero non più come un nemico, ma come se
le appartenesse e che le sarebbe sempre appartenuto per designazione divina.
Allora alzò gli occhi e lo guardò nelle fattezze del viso, nei denti bianchissimi e perfettamente
allineati, nei grandi occhi verde-azzurro dove si ritagliò un angolino di cielo per una
sua, nuova, alba di vita e di pace.
Il ventre e le cosce le vibrarono per inconscio, spontaneo afflato e, totalmente pervasa dal
piacere dei sensi e dalla commozione del cuore, gli si abbracciò come tenera sposa, libera
dall’offesa dello stupro.
Il giovane guerrigliero serbo non aveva fatto caso al mutamento del comportamento della
sua “vittima”. Non gliene era importato, non gl’importava.
Terminò il suo atto di possesso e, soddisfatto d’avere adempiuto quella violenza ordinatagli,
si alzò, si riallacciò i pantaloni, imbracciò il fucile mitragliatore e si avviò per uscire.
«Mi chiamo Amine Slawchika - lo bloccò sulla porta la flebile voce di lei. – E tu?»
La domanda lo colse impreparato e si voltò minaccioso, col braccio alzato pronto a colpire,
e con occhi fiammeggianti d’odio e dispetto perché aveva osato rivolgergli la parola.
Ma, incrociatili quegli occhi appassionati, rinunciò a colpirla, si confuse e balbettò:-
«Mirlenko… Mirlenko Djamel al-Rahman.»
Poi, continuando a fissarla, ma non più con cattiveria, con moto spontaneo le buttò fra le
cosce rimaste scoperte, la focaccia che aveva nel tascapane e che costituiva la sua razione di
cibo giornaliero e imboccò, deciso, la porta scomparendo e restituendo a quell’unico vano
angusto e spoglio, la luce del giorno sorto da poco.
Il reparto dell’ospedale militare di Tuzla ospitava le decine e decine di donne stuprate nove
mesi prima dai guerriglieri serbo-croati della pulizia etnica e che avevano dato alla luce i “figli
della vergogna”.
Amine, partorita la sua creatura, un robusto maschietto dagli occhi color verde-azzurro,
non aveva potuto nemmeno vederla, tenersela accanto, allattarla.
«Casomai decidessi di volertelo tenere – le disse il medico – ti preparo i documenti da
firmare e potrai portartelo.»
Esaminò le carte che aveva in mano, la guardò senza umanità e aggiunse:- «Non ci sono
difficoltà se non quelle che verranno da te. È un bastardo della vergogna etnica. Avresti dovuto
opporti, necessitando, fino alla morte.»
Lei rimase indifferente, fece spallucce e non rispose. Non lo sapeva se lo voleva o no con
sé quel figlio.
Si raggomitolò affondando il viso nel materasso e pensò che quella sua storia sarebbe stata
di sicuro una storia diversa e migliore senza gli orrori, i drammi, gli sconvolgimenti, le violenze
di quella guerra; che quel suo piccino, che non le era importato nemmeno di vedere, lo
avrebbe avuto con sé senza che nessuno le chiedesse niente; che mai avrebbe odiato, come ora
odiava, chi glielo aveva fatto generare.
Dopo quel giorno dello stupro era piombata nello sconforto e nella solitudine più opprimente,
e la fame l’aveva spinta sempre più lontano dalle campagne del suo villaggio, fino alle
falde dei monti di confine dov’era più possibile trovare verdure selvatiche, tuberi, frutti, lumache
e, con un po’ di fortuna, afferrare un coniglio, un porcospino, un tasso…
E, un pomeriggio che dopo essersi riempito il sacco di verdure varie stava facendo ritorno
al villaggio, ai piedi della montagna l’avevano circondata suoi compaesani alla macchia che,
al posto del sacco le avevano messo in mano una mitraglietta.
«È tempo che vieni con noi – le ordinò il più anziano. – C’è da distruggerli tutti quei cani
e abbiamo bisogno di chiunque abbia braccia buone per un’arma.»
«Ma io non so sparare» - aveva cercato di rifiutarsi.
Ma l’altro le aveva guardato il ventre rigonfio dalla gravidanza e, con tono ironico misto a
rabbia, le aveva sghignazzato deciso:- «Imparerai presto, vedrai. Tu dovresti avere un motivo
in più per odiare.»
Il coro di risate del gruppo le aveva fatto abbassare il capo e, anziché protestare, aveva
imbracciato l’arma e li aveva seguiti su per i monti.
Quella violenza, che nel momento in cui l’aveva subita era riuscita a tramutare in amore,
col tempo però, fra solitudine e difficoltà di come vivere, le era ridiventata violenza; convincendosi,
fra l’altro, che quel guerrigliero l’aveva posseduta senza amore e che, a causa di
quell’assurda guerra, non l’avrebbe mai più rivisto.
Amareggiata, indispettita, evitata da tutti, umiliata, abbandonata a se stessa, aveva finito
con l’odiare anche la sua gente e quando era stata invogliata alla vendetta, ad ogni scontro
dimenticava il pericolo e si accaniva contro il nemico con una ferocia che sbalordiva i suoi
stessi compagni.
Storie d’amore non ne aveva più avute, ma nel freddo e nel buio dei rifugi, pur conscia che i
suoi compagni la reclamassero perché “carne sacrilega e di chiunque”, nonostante ingrossasse
sempre più, non si negava e si faceva prendere; quasi a volersi punire.
Ma, alle volte, immaginava d’essere nella sua stamberga giù a Srebrenica, fra le braccia
del suo guerrigliero nemico, di sprofondare nei suoi occhi verde-azzurro e risentire quel dolce
tepore che non aveva mai dimenticato e mai più sentito.
«È quella.» Senti dire da una voce femminile che la destò del tutto. Sollevò il viso dal materasso,
guardò in direzione della voce e scorse sulla porta, accanto all’infermiera che aveva parlato
e che la indicava, un giovane alto, dinoccolato, in abiti civili che annuiva esibendo uno sciocco
sorriso di gioia e d’imbarazzo reggendo in una mano uno sparuto mazzetto di fiori di campo.
Non ebbe difficoltà a riconoscerlo per Mirlenko e ritrovò d’improvviso nei suoi occhi verde-
azzurro il suo angolo di cielo sereno. Pensò che non l’aveva dimenticata e serrò gli occhi
per scacciare i singhiozzi d’un irrefrenabile pianto.
Avvertiva, come per incanto, il dissiparsi dell’odio e il rinnovarlesi in cuore quel sentimento
d’amore tanto sognato e che le ridava ancora quel mai dimenticato, dolce tepore.

(Questa bella pagina ce l’ha partecipata tempo fa l’amico professore Vittorio Sorrenti, come ha
fatto tante altre volte, una tra le migliaia di altre sue pagine che aspettano di essere stampate e fruite.
Noi gliel’abbiamo chiesta, e lui l’ha data volentieri all’attenzione dei lettori de “La Radice”. Lo ringraziamo
anche da queste colonne. Ndd)


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