Data: 31/12/2019 - Anno: 25 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)
Rosèhṛa era nata a Mingiànu, in una grigia giornata d’autunno. La madre, Ccicca ’a Pezzàra,(2) incinta in stato avanzato, non poteva permettersi di stare a casa a riposo, come la levatrice le aveva ordinato, perché, morto il marito, in famiglia avrebbero sofferto la fame se lei non fosse andata ogni giorno a lavorare come bracciante agricola, al servizio del proprietario terriero di turno che la richiedeva. Quell’anno era stata appardàta(3), insieme a tante altre donne, a raccogliere le olive di ndon Pascàla, proprietario di uliveti in numerose zone del territorio, dalla collina alla marina, da Lucru a Cardàra. Il giorno in cui è venuta alla luce Rosehṛa si raccoglievano olive a Mingiànu, poco distante dal paese dove la partoriente e la neonata, poste sul carro trainato da buoi dell’azienda del padrone, furono velocemente trasportate e affidate al sollecito intervento di donna Margherita, la solerte levatrice. Il parto campestre non ebbe, per fortuna, tragiche conseguenze, ma Cicca ’a Pezzàra dovette rimanere a casa a lungo, per curare se stessa e per badare alla sua piccola che aveva bisogno del suo latte, del suo calore. Non fu proprio fame nera, perché essendo la famiglia compresa nell’elenco dei poveri del Comune, saltuariamente arrivava provvidenziale l’intervento dell’E.C.A.(4), che si aggiungeva agli altrettanto saltuari magri compensi in natura elargiti a Micarèhṛu,(5) il decenne figlio maggiore in casa che ogni giorno dell’anno portava al pascolo il gregge di donna Rosètta do mèdacu. In casa, una stanza per dormire e la cucina con forno a legna, viveva anche la vecchia nonna, che dava una mano badando soprattutto alla piccola Rosèhṛa appena Ccicca fu in grado di tornare alla raccolta delle olive quell’anno più abbondanti dei precedenti. A sei anni la piccola cominciò a frequentare la scuola, e ne era felice perché le piaceva tanto stare in compagnia di altre bambine, per giocare e per imparare tante cose nuove che la buona nonna non le poteva insegnare. Non durò a lungo, però, quel periodo di gioiosa crescita, perché la madre, a causa di una malattia non facilmente curabile, dovette ridurre notevolmente le giornate di lavoro, sino a non più potersi muovere da casa. La ragazza dovette quindi lasciare la scuola per dedicarsi al lavoro. Costretta a staccarsi dalle compagne, ormai care amiche, e da un ambiente ormai familiare in cui avvertiva giornalmente di crescere con la guida di una brava maestra che lei considerava una seconda mamma, ne soffrì tanto. Ma non pianse, perché la confortava in parte, e un po’ la inorgogliva, il pensiero che il suo sacrificio era necessario per la famiglia: per la buona nonna e per la mamma specialmente, la cui salute peggiorava ogni giorno di più. Era persino contenta quando pensava di avere imparato a leggere e a scrivere, a risolvere problemi di aritmetica, a scrivere lettere, a conoscere nomi e fatti di geografia e di storia. Era tanto commossa ma trattenne le lacrime anche il giorno in cui posò nel baule di casa il grembiule, da lei stessa lavato e stirato, che avrebbe indossato ancora per un anno di scuola se la sorte non gliel’avesse impedito; vi mise accanto la valigia(6) di stoffa che la madre le aveva fatto fare dalla sarta vicina di casa comare Vittorùzza,(7) con dentro la penna, la matita, la gomma, pochi colori, due quaderni; accanto alcuni libri. In poco tempo la brava donnina imparò a fare quanto aveva sempre visto fare a sua madre: spesso da sola e qualche volta in compagnia di donne adulte: accudiva alle galline, lavava, stirava, metteva in ordine la casa. Raccoglieva cicorie e finocchi nei campi; cercava chiocciole alle prime piogge autunnali; faceva la spigolatrice dopo la mietitura e andava in montagna a raccattare castagne dopo la festa di tutti i Santi. Aiutava chiunque nella ruga avesse bisogno delle sue piccole ma laboriose mani, e quasi sempre portava a casa, con un sorriso, qualcosa da masticare. Quando, però, veniva chiamata alla raccolta delle olive di ndon Pascàla accorreva senza perder tempo, perché quel lavoro era per lei il più facile e il meno pesante, ma soprattutto il più utile per la famiglia, A Rosèhṛa, ancora bambina, non veniva corrisposta, come alle altre raccoglitrici, una quarta(8) di olio per ogni giorno di lavoro, ma la metà, che, però, era ugualmente importante per la famiglia, specialmente nelle annate in cui la raccolta durava da ottobre a marzo. Quando Ccicca ’a Pezzàra volò al Creatore, la sua creatura aveva dodici anni. Anche la nonna era nel frattempo volata al Cielo. Rosèhṛa, ormai unica donna in casa, con la non assidua presenza di Micarèhṛu, schiavo notte e giorno del gregge di donna Rosetta, vestita a nero in segno di lutto continuò a raccogliere olive per ndon Pascàla. Un giorno, si era in pieno inverno, a Cercìdu la raccolta delle olive era quasi proibitiva perché le mani delle raccoglitrici bruciavano per il freddo come punte da dure spine, ma bisognava continuare. E continuarono tutte, compresa la piccola orfana, trattenendo a stento le lacrime. Nel breve intervallo di mezzogiorno per mettere qualcosa sotto i denti, con gli sterpi raccolti sotto i secolari ulivi venne acceso un focherello per scaldarsi le mani, e sulla poca brace fu sparsa una buona manciata di olive nere e ben mature da consumare come companatico con il nero pane portato dal paese nella salvietta. La donne, sedute in cerchio attorno a quello stentato fuoco non avevano ancora cominciato a consumare quel modesto cibo, quando Cola u guardiànu, passando lì accanto, grido con alterigia: “Aja lu santu lampu, cu’ misa allìvi nto focu?! Allìvi su’ do patrùni: si nnnò m’u dicìti, stasìra nci’u dicu a ndon Pascàla e vi fazzu cacciàra na jornata ’e lavùru!”(9) Poi allungò la gamba ben coperta da alto stivale di cuoio, per lui simbolo di potestà, e con la pesante scarpa diede più volte sulle olive e sul debole fuoco sino a spegnerlo. Le raccoglitrici si guardarono tra loro in silenzio, e la più anziana puntò l’indice verso Rosèhṛa che scoppiò a piangere, non mise più nulla in bocce e la sera tornò a casa come colpita a morte. Quello fu l’ultimo giorno in cui la piccola orfana fu raccoglitrice di olive. Qualche tempo dopo scese a piedi sino alla marina, entrata nella stazione ferroviaria comprò un biglietto e salì su un affumicato treno che la portò verso nord -nel Marchesato, si disse poi in giro- a fare la serva di un signorotto della zona. Micarèhṛu, così detto anche in vecchiaia, non ha mai saputo rispondere a chi gli chiedeva che fine avesse fatto la sorella Rosèhṛa. Vincenzo Squillacioti
NOTE: (1) Diminutivo popolare del nome di persona Rosa. (2) Francesca detta la Pezzàra. (3) “Assunta” al lavoro, in continuazione sino alla fine della raccolta. (4) Ente Comunale Assistenza. (5) Diminutivo popolare di Domenico (da Mico). (6) Antenata della cartella con cui gli scolari portavano a scuola libri e quaderni. (7) Vezzeggiativo popolare del nome di persona Vittoria. (8) Misura locale per l’olio (un litro). (9) “Mannaggia il santo fulmine, chi ha messo le olive nel fuoco?! Le olive sono del padrone: se non me lo dite, stasera lo dirò a don Pasquale e vi farò pagare una giornata in meno di lavoro.” |