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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2019 - Anno: 25 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

ROSÈHṚA(1)

Letture: 976               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

Rosèhṛa era nata a Mingiànu, in una grigia giornata d’autunno. La madre, Ccicca ’a Pezzàra,(2)
incinta in stato avanzato, non poteva permettersi di stare a casa a riposo, come la levatrice le
aveva ordinato, perché, morto il marito, in famiglia avrebbero sofferto la fame se lei non fosse
andata ogni giorno a lavorare come bracciante agricola, al servizio del proprietario terriero di
turno che la richiedeva.
Quell’anno era stata appardàta(3), insieme a tante altre donne, a raccogliere le olive di ndon
Pascàla, proprietario di uliveti in numerose zone del territorio, dalla collina alla marina, da
Lucru a Cardàra.
Il giorno in cui è venuta alla luce Rosehṛa si raccoglievano olive a Mingiànu, poco distante dal
paese dove la partoriente e la neonata, poste sul carro trainato da buoi dell’azienda del padrone,
furono velocemente trasportate e affidate al sollecito intervento di donna Margherita, la solerte
levatrice.
Il parto campestre non ebbe, per fortuna, tragiche conseguenze, ma Cicca ’a Pezzàra dovette
rimanere a casa a lungo, per curare se stessa e per badare alla sua piccola che aveva bisogno del suo
latte, del suo calore. Non fu proprio fame nera, perché essendo la famiglia compresa nell’elenco
dei poveri del Comune, saltuariamente arrivava provvidenziale l’intervento dell’E.C.A.(4), che si
aggiungeva agli altrettanto saltuari magri compensi in natura elargiti a Micarèhṛu,(5) il decenne
figlio maggiore in casa che ogni giorno dell’anno portava al pascolo il gregge di donna Rosètta
do mèdacu.
In casa, una stanza per dormire e la cucina con forno a legna, viveva anche la vecchia nonna,
che dava una mano badando soprattutto alla piccola Rosèhṛa appena Ccicca fu in grado di tornare
alla raccolta delle olive quell’anno più abbondanti dei precedenti.
A sei anni la piccola cominciò a frequentare la scuola, e ne era felice perché le piaceva tanto
stare in compagnia di altre bambine, per giocare e per imparare tante cose nuove che la buona
nonna non le poteva insegnare. Non durò a lungo, però, quel periodo di gioiosa crescita, perché la
madre, a causa di una malattia non facilmente curabile, dovette ridurre notevolmente le giornate
di lavoro, sino a non più potersi muovere da casa. La ragazza dovette quindi lasciare la scuola per
dedicarsi al lavoro. Costretta a staccarsi dalle compagne, ormai care amiche, e da un ambiente
ormai familiare in cui avvertiva giornalmente di crescere con la guida di una brava maestra che
lei considerava una seconda mamma, ne soffrì tanto. Ma non pianse, perché la confortava in
parte, e un po’ la inorgogliva, il pensiero che il suo sacrificio era necessario per la famiglia: per
la buona nonna e per la mamma specialmente, la cui salute peggiorava ogni giorno di più. Era
persino contenta quando pensava di avere imparato a leggere e a scrivere, a risolvere problemi di
aritmetica, a scrivere lettere, a conoscere nomi e fatti di geografia e di storia. Era tanto commossa
ma trattenne le lacrime anche il giorno in cui posò nel baule di casa il grembiule, da lei stessa
lavato e stirato, che avrebbe indossato ancora per un anno di scuola se la sorte non gliel’avesse
impedito; vi mise accanto la valigia(6) di stoffa che la madre le aveva fatto fare dalla sarta vicina
di casa comare Vittorùzza,(7) con dentro la penna, la matita, la gomma, pochi colori, due quaderni;
accanto alcuni libri.
In poco tempo la brava donnina imparò a fare quanto aveva sempre visto fare a sua madre:
spesso da sola e qualche volta in compagnia di donne adulte: accudiva alle galline, lavava, stirava,
metteva in ordine la casa. Raccoglieva cicorie e finocchi nei campi; cercava chiocciole alle prime
piogge autunnali; faceva la spigolatrice dopo la mietitura e andava in montagna a raccattare
castagne dopo la festa di tutti i Santi. Aiutava chiunque nella ruga avesse bisogno delle sue piccole
ma laboriose mani, e quasi sempre portava a casa, con un sorriso, qualcosa da masticare. Quando,
però, veniva chiamata alla raccolta delle olive di ndon Pascàla accorreva senza perder tempo,
perché quel lavoro era per lei il più facile e il meno pesante, ma soprattutto il più utile per la
famiglia, A Rosèhṛa, ancora bambina, non veniva corrisposta, come alle altre raccoglitrici, una
quarta(8) di olio per ogni giorno di lavoro, ma la metà, che, però, era ugualmente importante per la
famiglia, specialmente nelle annate in cui la raccolta durava da ottobre a marzo.
Quando Ccicca ’a Pezzàra volò al Creatore, la sua creatura aveva dodici anni. Anche la nonna
era nel frattempo volata al Cielo. Rosèhṛa, ormai unica donna in casa, con la non assidua presenza
di Micarèhṛu, schiavo notte e giorno del gregge di donna Rosetta, vestita a nero in segno di lutto
continuò a raccogliere olive per ndon Pascàla.
Un giorno, si era in pieno inverno, a Cercìdu la raccolta delle olive era quasi proibitiva perché
le mani delle raccoglitrici bruciavano per il freddo come punte da dure spine, ma bisognava
continuare. E continuarono tutte, compresa la piccola orfana, trattenendo a stento le lacrime. Nel
breve intervallo di mezzogiorno per mettere qualcosa sotto i denti, con gli sterpi raccolti sotto i
secolari ulivi venne acceso un focherello per scaldarsi le mani, e sulla poca brace fu sparsa una
buona manciata di olive nere e ben mature da consumare come companatico con il nero pane
portato dal paese nella salvietta. La donne, sedute in cerchio attorno a quello stentato fuoco non
avevano ancora cominciato a consumare quel modesto cibo, quando Cola u guardiànu, passando
lì accanto, grido con alterigia: “Aja lu santu lampu, cu’ misa allìvi nto focu?! Allìvi su’ do patrùni:
si nnnò m’u dicìti, stasìra nci’u dicu a ndon Pascàla e vi fazzu cacciàra na jornata ’e lavùru!”(9)
Poi allungò la gamba ben coperta da alto stivale di cuoio, per lui simbolo di potestà, e con la
pesante scarpa diede più volte sulle olive e sul debole fuoco sino a spegnerlo. Le raccoglitrici
si guardarono tra loro in silenzio, e la più anziana puntò l’indice verso Rosèhṛa che scoppiò a
piangere, non mise più nulla in bocce e la sera tornò a casa come colpita a morte.
Quello fu l’ultimo giorno in cui la piccola orfana fu raccoglitrice di olive. Qualche tempo dopo
scese a piedi sino alla marina, entrata nella stazione ferroviaria comprò un biglietto e salì su un
affumicato treno che la portò verso nord -nel Marchesato, si disse poi in giro- a fare la serva di un
signorotto della zona.
Micarèhṛu, così detto anche in vecchiaia, non ha mai saputo rispondere a chi gli chiedeva che
fine avesse fatto la sorella Rosèhṛa.
Vincenzo Squillacioti

NOTE:
(1) Diminutivo popolare del nome di persona Rosa.
(2) Francesca detta la Pezzàra.
(3) “Assunta” al lavoro, in continuazione sino alla fine della raccolta.
(4) Ente Comunale Assistenza.
(5) Diminutivo popolare di Domenico (da Mico).
(6) Antenata della cartella con cui gli scolari portavano a scuola libri e quaderni.
(7) Vezzeggiativo popolare del nome di persona Vittoria.
(8) Misura locale per l’olio (un litro).
(9) “Mannaggia il santo fulmine, chi ha messo le olive nel fuoco?! Le olive sono del padrone: se non
me lo dite, stasera lo dirò a don Pasquale e vi farò pagare una giornata in meno di lavoro.”


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