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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/06/2022 - Anno: 28 - Numero: 1 - Pagina: 29 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

UNA NOTTE AL RIFUGIO

Letture: 475               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

UNA NOTTE AL RIFUGIO
C’è chi sostiene, tra i pensanti di questo
strano mondo, che la guerra, il conflitto, la lite, il
dispotismo, la sopraffazione, il pianto, il dolore,
la tragedia… sono caratteristiche fondanti della
natura, non solo umana, ma anche degli altri
animali e delle piante. Così come, si sostiene
dagli stessi pensanti, lo sono la pace, l’amore, la
concordia, l’amicizia, l’ospitalità, l’accoglienza…
Due complesse facce, insomma, della stessa realtà.
Tali sino al punto che la vita stessa -il positivo- non
potrebbe esistere senza la morte. Un paradosso?!
Esistono, pertanto, naturalmente, in questo strano
mondo, gli uccelli rapaci e l’ingenuo pettirosso,
i santi e i criminali. Naturalmente. I gruppi di
esseri umani, e anche di animali e di piante, fin
dai primordi si organizzano, e magari legiferano,
per ridurre il più possibile lo spazio di ciò che
sinteticamente viene definito Male, per fare
imperare il Bene.
Astruseria o elucubrazione, fermo convincimento
o consolidato credo, in questi giorni vi si
associa con prepotenza, senza alcuna pretesa di
valore di verifica, il martellante pensiero di que
sta ultima guerra in Ucraina e in tutto
il pianeta, che vive con tragica paura
il conflitto al quale non aggiungiamo
alcun aggettivo, del quale non scriveremo
nulla, perché non spetta a noi,
perché non vogliamo, perché sarebbe
inutile.
Confessiamo, invece, che quanto
sentiamo e vediamo per televisione ha
fatto fare a chi firma questo articolo
Segue da pag. 29
un salto nel passato, riportandolo con la memoria al 1943, quando un altro terribile conflitto
coinvolgeva in modo diretto anche la nostra Calabria, rimasta, in quanto zona periferica d’Italia e
del Continente, in qualche modo al margine del disastro. È pur vero, però, che se pur relativamente
pochi sono stati i morti sotto le macerie o squarciati dalle bombe, e se pure non c’era il terrore per
la bomba atomica, la guerra è passata anche per le nostre strade (9 settembre 1943), ha navigato fin
dall’inizio nei nostri mari (10 luglio 19409, ha volato per anni nel nostro cielo stellato. Di notte,
soprattutto, si aveva la piena consapevolezza della gravità del conflitto, quando, senza preavviso
di lugubre suono di sirene, si sentiva all’improvviso il minaccioso rombo dei quadrimotori, e si
balzava dal letto per cercare rifugio fuori casa, non nelle gallerie delle metropolitane che da noi non
c’erano, non nelle gallerie delle ferrovie, ma nella grotta della roccia scavata per costruirvi sopra
la casa, nel catòiu, nella stalla, in un locale dove il crollo dei muri fosse meno probabile. Talvolta
si correva fuori paese, nell’aperta campagna, dove non c’erano case né luci che fossero avvistate
dagli aerei nemici che volavano sulle nostre teste.
Nella primavera del 1943, quando il conflitto s’era fatto più pericoloso e più cruento, quasi tutte
le famiglie di Badolato hanno abbandonato le proprie case e si sono trasferite nelle centinaia di case
rurali di proprietà o di parenti o di amici, sparse per le campagne.
In quei mesi di “sfollamento” nelle zone collinari v’era un incessante brulichio, come un
attivo formicaio in cui si operava, per il presente e per l’incerto futuro. C’erano nei “casini” anche
i padroni dei terreni più estesi, non certo a lavorare, ma a stare al sicuro e controllare. E c’era
qualche prete, a dir Messa ogni giorno per la gente delle casette vicine, con altari improvvisati,
e a coordinare le preghiere degli oranti a sera, e pure a battezzare qualche neonato. Intanto si
produceva curando le piante e realizzando ortaggi dove c’era l’acqua di sorgente che veniva
raccolta nelle vasche per l’irrigazione, con il vantaggio, persino, di aumentare il numero delle ore
di lavoro, risparmiando del tempo prezioso al mattino per raggiungere a piedi da casa il terreno e
a sera per farvi ritorno. Tante cose mancavano, in verità, costretti a vivere notte e giorno in locali
quasi tutti costruiti al solo scopo di rifugio per la pioggia, per depositi di attrezzi agricoli, più di
uno con palmento per vinificare, quasi tutti di una sola stanza, senza acqua se non quella che si
attingeva a una sorgente non sempre vicina; senza bagno, con illuminazione a cera, a petrolio,
a legna. Tuttavia enorme era la differenza con chi in questo periodo sta nascondendosi o sta
scappando dall’Ucraina; ed anche notevole la differenza che avremmo avuto l’anno successivo
(1944) con gli sfollati di Cassino, numerosi anche in Badolato, che scappavano dalla guerra, dalle
bombe, dalle case distrutte per sempre.
Saltuariamente qualcuno della famiglia scendeva in paese, per verificare se la casa era ancora
chiusa o con la porta aperta perché capitava talvolta che ladruncoli approfittassero per prelevare
olio, vino, capicolli, soppressate, in mancanza di denaro e di gioielli che certamente mancavano.
Ritiravano vestiario e altro all’occorrenza e si recavano al negozio di alimentari, di don Ciccio
Pultrone soprattutto, il più grande e il più fornito, per acquistare quel poco che la legge consentiva

La Radice” - Anno XXVIII - N. 1 - 30.06.2022 AVVENNE A BADOLATO 31
presentando la “carta annonaria”. Il contadino che aveva da coltivare anche terreni nella marina era
costretto a scendere di tanto in tanto, limitandosi a fare il solo necessario e tornare frettolosamente
al rifugio collinare, perché lungo la costa sfrecciavano a bassa quota gli aerei “a due code” per
mitragliare i treni che vi transitavano, o per incendiar e i cumuli di carbone depositati nelle stazioni
ferroviarie. E poi, nelle zone pianeggianti e irrigue ronzavano milioni di zanzare che procuravano
la perniciosa malaria. Mi racconta un contadino del tempo, oggi di novanta anni inoltrati, che,
quando il turno per irrigare toccava di notte, riposavano in un “lettone” realizzato per quattro
persone sopra una pianta di ulivo, per non essere raggiunti dalle zanzare che amano volare piuttosto
in basso, a contatto con l’erba bagnata.
Talvolta, scendendo in paese per un qualche motivo, si rimaneva a casa qualche giorno o più, e
capitava che fosse necessario scappare al rifugio in piena notte, al terribile rombo di aerei certamente
nemici, ché gli aerei di casa nostra erano e servivano altrove, dove la guerra sconvolgeva veramente
La mia famiglia, genitori e cinque figli, il più piccolo di sette anni, eravamo rifugiati a Doga,
una località boschiva di montagna. Alloggiavamo in una baracca di legno assegnata a mio padre
che era il “controllore”, per conto del Comune, del carbone che veniva prodotto dalle tante
carbonaie realizzate con il legno dell’esteso bosco pubblico. Un giorno scendemmo anche noi in
paese, percorrendo piuttosto facilmente la tortuosa via mulattiera che dai mille metri di altitudine
arrivava diritta ai duecentocinquanta del centro abitato. Vi rimanemmo l’intera giornata e anche
la notte, con l’intento di ripartire per Doga il mattino successivo. Ma, durante la notte, ecco il
“disgraziato” rombo dell’aereo nemico: vestiti alla meno peggio scappammo al piano sottostante,
dentro la bottega di un barillaio, nella convinzione che, trattandosi di una sorta di grotta scavata
nello scoglio (la roccia, degradata) si stesse al sicuro. Stemmo lì, svegli sino all’alba, senza
panico ma piuttosto sereni. Ovviamente senza alcuna luce, neanche per guardarci l’un l’altro.
All’alba, mettendo le mani tra gli attrezzi di lavoro, toccai un oggetto, e m’accorsi che si trattava
di un temperino, con il manico di legno, e lo misi, senza far parola, nella tasca dei miei pantaloni
da bambino non ancora decenne. Di buon’ora ripartimmo per la montagna, e vi rimanemmo sino
al giorno in cui arrivò anche lassù l’eco delle campane che suonavano a festa perché la guerra
era finita.
Era l’8 settembre. La guerra l’avremmo avuta addosso tragicamente ancora per un anno e otto
mesi, compresa la tragedia di Montecassino e la strenua Resistenza. Ma l’armistizio non era certo
poco, specialmente per noi che in quell’occasione e in non numerose altre siamo stati avvantaggiati
dall’essere la parte terminale dello Stivale, periferia nazionale, e continentale.
Dal primo ottobre a scuola, con Cuore come libro di lettura. Nel pomeriggio, per noi bambini,
i pochi impegni di famiglia, i compiti di scuola per l’indomani e poi gl’innocenti svaghi negli utili
slarghi delle rughe del paese. Ed ecco un giorno di quelli saltar fuori il temperino “rubato” la notte
di qualche mese prima nella bottega di mastro Mico. Per costruire un carìci (giocattolo costruito
dagli stessi bambini), bisognava sagomare in modo opportuno un frammento di pelle di capra, che
io appoggiai sul ginocchio e cominciai a tagliare senza pensare che sotto la pelle c’era la stoffa dei
pantaloni e poi il nudo ginocchio: il sangue che ne è sgorgato lo fermai con un fazzoletto che in
tasca non mi è mai mancato, e nascosi, finché fu possibile, l’accaduto ai miei genitori. La traccia
di quella ferita è ancora visibile sul mio ginocchio, e ancora oggi al vederla scatta il ricordo del
rombo delle fortezze volanti, dei rifugi d’emergenza senza luce, né bagno, né acqua,… Il ricordo
di quella guerra. Delle tante guerre che ci sono state e che ancora oggi sono numerose sul pianèta.
La tristezza per la guerra attuale in Europa, che per tanti versi può dirsi mondiale. E la rabbia
al pensiero che circa otto miliardi di esseri umani non riusciamo a trovare un mezzo legale per
fermare, bloccare, paralizzare -non voglio usare verbi d’altro tono- chi è causa di guerra, cioè di
sciagura e di morte.


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