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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/09/2004 - Anno: 10 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

GL' INCAPPUCCIATI

Letture: 1297               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

Da un paio d’anni non circolavano più morti per il paese. L’ultima volta c’era stata quella strana Messa alla chiesa del Monasteri nel cuore della notte tra Giovedì e Venerdì Santo, con la casuale partecipazione -si vociferava- di un uomo e un bambino, vivi, scesi da Petràccolu convinti di prendere parte alla Messa Cappèhr1a. Tutti uomini, nella grande chiesa, vestiti rigorosamente in nero, con camicia bianca e cravatta nera. E infinite candele accese che illuminavano a giorno l’unica grande navata di San Domenico che ospitava la nobile assemblea di trapassati. E la notte successiva la lunga processione di fiammelle tremolanti dalla chiesetta della Sanità al convento dei Francescani, poi a San Rocco, per fermarsi, infine, ai ruderi della chiesa di San Michele. Più d’uno raccontò l’indomani d’aver assistito alla strana fiaccolata dalla finestra di casa propria, dal Mancùsu.
Quella sera Marzo sembrava aver trovato un inusuale equilibrio: non pioveva, non tirava vento, né si sentiva il suo proverbiale freddo che riuscirebbe a penetrare persino il corno del bue. Da poco i dodici rintocchi dell’orologio della torre campanaria avevano rotto lo scuro e impenetrabile silenzio che avvolgeva ogni cosa. Da un pezzo ormai era rientrato a casa di don Vincenzo anche il claudicante Venanzio che, alla doppia fiammella della padronale lanterna, aveva accompagnato in Canonica don Giuseppe Sciacca, il prete siciliano che da due anni faceva il maestro in paese. Un lieve stormire di foglie della giovane acacia fascista, il lontano abbaiar d’un cane, e poi di nuovo il silenzio, cadenzato dal timido scroscio dell’acqua della fontana di piazza Santa Barbara.
Mastru Micu anche quel giorno aveva dedicato parecchie ore serali al rifacimento del pavimento di casa propria, per non dover sottrarre preziose giornate lavorative alla continua richiesta della sua manodopera da parte della gente. Deposti livello e cazzuola, s’avviò al balcone per chiudere gli scuri prima di coricarsi. L’abituale sguardo alla sonnolenta piazzetta e… laggiù, nei pressi del palazzo Menniti, una strana presenza: alcune pallide luci nel buio della notte. Erano sette, in movimento. Incuriosito, più che spaventato, mastru Micu sostò non visto dietro il vetro del balcone, mentre le luci, sempre meno fioche, procedevano in direzione di casa sua. Quando gli furono sotto vide delle figure umane, vestite di bianco e con la testa coperta da un cappuccio, come i disciplinàri di Giovedì Santo: ognuna di quelle figure aveva un dito acceso, a mo’ di torcia. Almeno così sembrava. Non potevano essere che morti, anime di trapassati che andavano alla chiesa del Rosario, per pregare, o forse per fare visita ad altri defunti colà sepolti. Erano anime del Purgatorio, non ancora abbastanza purificate da abitare il Paradiso. Così pensò all’istante mastru Micu, che già tante volte aveva sentito di strane processioni per le vie del paese, particolarmente nei pressi delle numerose chiese. Appena furon fuori dal suo sguardo, però, riprese il pieno controllo di sé, e pensò che, in fondo, poteva anche trattarsi di buontemponi in carne ed ossa, o, peggio, di volgari furfanti che s’eran travestiti da fantasmi per portare più agevolmente a termine qualche losca impresa. Senza perdere tempo, mise in tasca la pistola, scese nella strada e s’avviò lungo il viottolo che fiancheggiando sul retro casa propria sbucava dritto alla scalinata della vicina chiesa del Rosario, accanto alla croce sbilenca. Pistola in pugno, si parò quindi ai sette comodamente seduti sui gradini e con nella destra un segmento di canna spaccata che riparava un mozzicone di candela ancora accesa. “Fermi hr1ocu! -Intimò il muratore- Si siti morti v’ammàzzu, si siti vivi presentàtavi!”. E quelli, quasi in coro: “No sparàti, mastru Micu. Simu nui…”. Un padre, due suoi figli e quattro loro compari: gente nota per l’abitudine di battere la fiacca, e sospettata di procurarsi il da mangiare, ed anche il di più, di notte, quando tutti dormivano.
Il più piccolo, un ragazzotto di appena quindici anni, alla vista della pistola si spaventò sino a svenire e a cadere per terra, sbattendo la testa su un gradino. Sollevato di peso dai fratelli e dal padre che se lo caricò sulle spalle, fu portato via frettolosamente, e gli altri dietro. Mastru Micu rimase solo sulla scalinata, sorpreso, sconcertato, amareggiato.

***

L’indomani, nel pomeriggio, alla chiesa di San Nicola fu celebrato il funerale di un giovine quindicenne, morto durante la notte, all’improvviso.


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