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Data: 31/08/2008 - Anno: 14 - Numero: 2 - Pagina: 17 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

ATTI del Convegno sul 60° della Costituzione

Letture: 1153               AUTORE: Direzione (Altri articoli dell'autore)        

ATTI del Convegno sul 60° anniversario della Costituzione della Repubblica Italiana

Badolato Marina - 2 giugno 2008
(Come annunciato la sera dell’8 marzo 2008 a chiusura delle manifestazioni per il Centenario della Festa della Donna -La Radice, n° 1/2008, pag. 33- a cura dello stesso Comitato organizzatore c’è stato il 2 giugno c. a. il Convegno sulla Costituzione Repubblicana nel 60° della nascita. Una nuova esaltante esperienza nella sala delle conferenze della Scuola Media di Badolato Marina, con centinaia di persone, del luogo e del Comprensorio, a partecipare, come galvanizzate, all’esecuzione dell’Inno di Mameli, alla lettura del Discorso sulla Costituzione agli studenti milanesi di Piero Calamandrei (1955), alle interessanti e coinvolgenti relazioni del preside professor Gerardo Pagano e del magistrato dottor Antonio Saraco.
Nell’occasione è stato distribuito al pubblico presente, e nei giorni precedenti a tutti i bambini e i ragazzi della scuola dell’obbligo di Badolato, uno snello volumetto, voluto dal Comitato e finanziato dall’Amministrazione Comunale, riportante il testo completo della nostra Costituzione, così come formulata dai Padri Costituenti, e il Discorso di Calamandrei.
Poiché non volevamo che restassero circoscritte a quella sola serata le due dotte relazioni, ricche di storia di riflessioni e di stimoli, abbiamo promesso quella sera che le avremmo pubblicate per parteciparle a tutti i lettori de “La Radice”: è quello che facciamo ora, nella certezza che è cosa buona, e con la speranza che sia cosa utile. Ringraziando ancora i due amici professionisti per la preziosa collaborazione.)

LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
Gerardo Pagano - Professiore e Preside Istituti Superiori
La Costituzione repubblicana non è soltanto il fondamento e il quadro di giustificazione delle leggi, ma un documento in cui il diritto, oltre a legarsi con la politica, si congiunge con l’etica quasi a voler cercare un ancoraggio a qualcosa di obiettivo, di più forte delle ragioni e delle volontà politiche che si sarebbero affermate nella successione del tempo. Questa ricerca del fondamento, che sembra rimandare più alla filosofia del diritto che alla concretezza dei comportamenti da regolare e degli istituti da organizzare, si realizza, però in una situazione storica determinata, nella quale la sconfitta in una guerra terribile aveva trovato l’epilogo in una guerra civile. “Sono i vinti che sono costretti da necessità a mutare i loro ordinamenti”, dichiarò Francesco Saverio Nitti nel discorso pronunciato nella seduta della Costituente dell’8 marzo 1947.1
Non è facile, oggi, riportarsi con la memoria alle vicende che portarono alla elezione dell’Assemblea Costituente, perché non riusciamo, o abbiamo molta difficoltà, a calarci in una situazione segnata fisicamente da crolli, macerie e desolazione, ma poi caratterizzata da un vuoto istituzionale, che, tuttavia, non impedì, o forse fu di stimolo per un sorprendente clima di intesa e collaborazione tra le forze politiche più rappresentative del nostro popolo.
Mi auguro di corrispondere a quello che è un encomiabile proposito di tenere vivi i valori sui quali è fondata la convivenza democratica del nostro Paese e ringrazio gli organizzatori per questa occasione che mi consente di riprendere un discorso sul quale attirare l’attenzione soprattutto dei giovani utilizzando anche due testi nati qui da noi, a Soverato. La Costituzione viva, pubblicato da Donzelli di Roma nel 1997, originato dai seminari sulla Costituzione, con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale e la partecipazione degli studenti delle scuole secondarie superiori; e la Costituzione tra passato e presente, stampato nel 1999 da Ursini di Catanzaro, che è una ricerca realizzata dagli studenti della IV A a.sc. 1998-99, del Liceo Scientifico di Soverato.2
PREMESSA
1. Il 2 giugno 1946 si svolsero, il referendum istituzionale e le elezioni per l’assemblea costituente. Che le due votazioni avvenissero contemporaneamente ha bisogno di una spiegazione: e questa si trova nel contesto degli avvenimenti che dal 25 luglio 1943, caduta del Fascismo, ai 45 giorni di Badoglio, all’armistizio, portarono alla divisione dell’Italia e all’eclissi dello Stato e dei suoi ordinamenti. Si doveva ricominciare da zero.
2. Il re Vittorio Emanuele, in nome del quale, dopo il 25 luglio 1943, erano stati emanati due provvedimenti di rottura col regime3, tentò di porre le condizioni per sopravvivere al crollo della dittatura, smantellando le strutture fasciste e restaurando lo statuto albertino, ma non seppe, o non volle, cogliere l’occasione storica di mettersi a capo della resistenza popolare contro i nazisti: fuggì, invece, da Roma, abbandonando il popolo italiano al suo destino e, insieme, bruciando ogni possibile speranza che la dinastia sabauda fosse capace di legare la sua storia alla rinascita dell’Italia.
Il Governo Badoglio deve fare i conti con la presenza degli Alleati, che erano sbarcati in Sicilia e a Salerno, cacciando i Tedeschi e occupando l’Italia meridionale, per ottenere di poter innalzare il tricolore in un lembo di territorio attorno a Brindisi e di poter amministrare con piena giurisdizione varie regioni meridionali. La rappresentatività giuridica, formalmente valida perché garantita dal re, non era però affidabile per gli Alleati, che con l’armistizio dell’8 settembre posero all’Italia pesanti condizioni: il fatto che a Napoli fosse ormai cominciata la resistenza contro i nazisti non venne considerato tale da non esigere una rottura netta con il passato, anche dal punto di vista istituzionale. Nell’ottobre 1943, infatti, da Londra, Mosca e Washington viene emanata contemporaneamente una nota nella quale esplicitamente si dichiara:
I tre governi prendono atto della promessa fatta dal governo italiano di rimettersi alla volontà del popolo italiano, dopo che i tedeschi saranno cacciati dall’Italia, ed è inteso che nulla potrà farli prescindere dal diritto assoluto del popolo italiano di decidere, senza influenze esterne e per le vie costituzionali, sulla forma di governo che esso vorrà eventualmente avere.4
Per forma di governo s’intendeva quella istituzionale dello Stato, insomma monarchia o repubblica.
3. Nel novembre 1943 furono i liberali a proporre Costituente più abdicazione di Vittorio Emanuele III: due mesi dopo a Bari, al congresso definito come la prima assemblea dell’Italia libera e dell’Europa libera, Croce e Sforza chiesero esplicitamente l’abdicazione del re come atto politico indispensabile per rendere possibile la partecipazione popolare alla guerra antinazista. Il 12 aprile 1944, dopo una trattativa faticosa, condotta dall’avv. Enrico De Nicola, Vittorio Emanuele annunciò di ritirarsi a vita privata nominando suo figlio luogotenente generale del regno: questo compromesso giuridico rese possibile la formazione del governo Badoglio aperto ai partiti antifascisti, rappresentati da Croce, Sforza, dal democristiano Rodinò, dal socialista calabrese Pietro Mancini e da Togliatti. Fu l’ultimo governo presieduto da un militare. Alla firma del decreto regio, datato 5 giugno 1944, Badoglio si dimise e Bonomi potè formare un governo con tutti e sei i partiti del Comitato di Liberazione Nazionale.5 Nei due anni della luogotenenza si succedettero due governi Bonomi, il governo Parri e il primo governo De Gasperi: il problema istituzionale attraversa e anima il dibattito politico polarizzandosi in due posizioni che sembrarono alternative, Costituente o referendum. Il 26 febbraio 1946 il consiglio dei Ministri deliberò il compromesso: il referendum si sarebbe svolto contestualmente all’elezione della Costituente.6
4. Intanto, con decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 2 febbraio 1945, era stato riconosciuto il diritto di voto alle donne, che il 2 giugno 1946 poterono esercitarlo per la prima volta, partecipando al referendum istituzionale e alla elezione dell’Assemblea Costituente.

L’ASSEMBLEA

1. I 556 deputati eletti erano così divisi: 207 della Democrazia Cristiana; 115 del Partito socialista di unità popolare; 104 del Partito comunista; 41 dell’Unione democratica nazionale (liberali, demolaburisti e indipendenti); 30 del fronte dell’Uomo qualunque; 23 del Partito repubblicano; 16 del Blocco nazionale della libertà; 7 del Partito d’Azione; altri 13 di liste minori.
Tali cifre attestano con immediatezza due elementi fondamentali, che condizionano la stesura della Costituzione insieme con lo sviluppo politico dell’Italia repubblicana:
1.1. La nuova classe dirigente chiamata alla guida dell’Italia è accomunata, in maggioranza, pur nelle diverse posizioni ideologiche, da un diffuso antifascismo e dalla partecipazione al movimento della Resistenza;
1.2. democristiani, socialisti e comunisti, i tre maggiori partiti di massa, costituiscono il 74% dei voti complessivi e sono, dunque, destinati a dominare i lavori dell’assemblea.
Il progetto di base di un nuova Costituzione non era disponibile: fu, perciò, deciso di affidarne l’elaborazione, sotto la forma di uno schema essenziale, ad una Commissione ristretta di 75 membri, designati dal Presidente della Costituente con il metodo della ripartizione proporzionale tra i gruppi parlamentari. Dopo il suo insediamento la Commissione si divise in tre sottocommissioni, i cui lavori furono armonizzati da un Comitato di coordinamento costituito successivamente, composto da 18 membri, che divenne in realtà il vero organo motore del processo di formazione della Costituzione, anche perché era formato da alcune delle maggiori personalità politiche e “tecnico politiche” del tempo. La Commissione dei 75 lavorò dal 19 luglio 1946 al febbraio 1947 per mettere a punto il progetto che venne presentato al giudizio e al voto dell’Assemblea. Il dibattito assembleare occupò 170 sedute plenarie, durante le quali si registrarono interventi di altissimo livello politico e culturale, che forse non sarà più raggiunto nella storia parlamentare. Il 22 dicembre 1947, in un clima di profonda emozione e di grande solennità, la Costituzione fu approvata con 453 voti favorevoli e 62 contrari.
Il 27 dicembre 1947 a palazzo Giustiniani, De Nicola, Terracini e De Gasperi apposero le firme sulle copie originali della Costituzione.7 Il 1° gennaio 1948 essa andava in vigore, De Nicola diveniva il capo effettivo dello Stato, non più solo provvisorio.


LA COSTITUZIONE
1. 139 articoli, a cui si aggiungono le diciotto norme transitorie e finali. Dopo i Principi fondamentali, il testo si articola in due parti: Diritti e doveri dei cittadini, e Ordinamento della Repubblica. Nei principi fondamentali (12 artt.) risiede il patto fondante della nostra Nazione, costituito anche dal patrimonio storico, culturale, civile e morale del popolo italiano.
2. Il compromesso costituzionale: l’espressione è infelice in quanto interpretabile in senso positivo o in senso negativo. è stato opportunamente rilevato da Gustavo Zagrebelsky: “Come ogni patto, anche la costituzione si basa su reciproche rinunce e reciproche concessioni tra le posizioni in campo. La lettura, anche solo superficiale del testo conferma questo dato, il compromesso costituzionale, un dato che fu rilevato con opposte valutazioni fin dal primo momento. Piero Calamandrei denunciò un’impressione di eterogeneità, contraddizione, confusione e, alla fine, debolezza costituzionale. Si sarebbe preferito, disse Jemolo, una costituzione più semplice, breve, lineare.” 8
I grandi partiti che furono i protagonisti di quella intesa ne diedero un giudizio positivo. Secondo Tupini, democristiano, nei lavori della commissione dei 75 “.....non sono mai venute meno la volontà di conciliazione e la convinzione responsabile che la carta costituzionale di un popolo non può riflettere l’intransigente pensiero del minimo numero possibile di cittadini...., sibbene il pensiero del maggior numero di essi, consenzienti su una sostanza comune di pensiero e di vita”. Più incisivo il comunista Togliatti: “..... Meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare ad una unità, cioè d’individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse”.
La Costituzione si fonda su alcuni principi che costituiscono le strutture portanti dell’intero ordinamento. Essi si possono così enunciare: principio democratico, principio pluralistico, principio d’uguaglianza, principio di solidarietà, principio di tutela del lavoro, dell’ambiente e della cultura, principio della persona. Quest’ultimo principio costituisce il fondamento dell’intera costruzione normativa della carta costituzionale. Esso costituisce anche il punto d’accordo tra le diverse culture presenti nell’Assemblea Costituente e in particolare tra quella di tradizione marxista e quella cattolica. “Il termine persona non viene usato con frequenza nei principi fondamentali, vi si legge più uomo o cittadino; ma tutto l’impianto costituzionale implicitamente presuppone il valore della persona, che si differenzia dall’individuo, perché le persone hanno origine e fine comune, che le trascende; fine che può essere conseguito solo in modo comunitario. Ecco perché le costituzioni liberali tendono più a sottolineare regole esterne, mentre quelle a base personalistica esplicitano maggiormente i rapporti comunitari. ………È quindi all’uomo integrale che dobbiamo riferirci, con la sua soggettività e la sua capacità, il suo essere individuo e le sue possibilità di pensare, di agire, di vivere. Ad ogni creatura, così definita, tutti, laici, marxisti, cattolici, non possiamo non riconoscere diritti e doveri. Se qualcuno vi vedrà una origine e un destino trascendenti, sarà libero di farlo. Il giurista, però, ha il compito più alto, quello di delineare un ordinamento giuridico che non solo riconosca ad ogni uomo la sua soggettività, ma gli garantisca il massimo sviluppo possibile della sua capacità.”9
Il principio democratico rimanda ad un passaggio culturale essenziale per comprendere la storia del Novecento. Il pensiero politico liberale era approdato alla affermazione dei diritti fondamentali dell’individuo come preesistenti al patto sociale che dà origine allo Stato. Così l’organizzazione sociale si realizza sulla base del rispetto di quei diritti: alla vita, alla libertà, alla proprietà. Viene definitivamente superata la società feudale, emerge e si afferma il principio che lo Stato interviene solo quando quei diritti sono a rischio, quando l’affermazione e l’esercizio del diritto di qualcuno possono limitare o sopprimere il diritto di un altro. Il costituzionalismo politico e il liberismo economico hanno qui i loro fondamenti. Il principio democratico consente un passo avanti: perché l’affermazione e l’esercizio di un diritto siano garantiti non basta affermarli, è necessario porre le condizioni concrete perché di fatto quella garanzia sia reale, fondata, come dicono gli Inglesi, sull’uguaglianza del punto di partenza. Le proposte di La Pira, democristiano, e di Basso, socialista, sui principi costituzionali fondamentali suscitarono un importantissimo dibattito, al termine del quale la progressiva reciproca comprensione consente l’accoglimento di una tesi espressa da Dossetti: è inevitabile che ogni costituzione si fondi su uno zoccolo ideologico comune a tutte le forze politiche costituenti, che può essere individuato nel riconoscimento dell’esistenza sia dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato. Questo accordo viene infine trovato su due articoli che prevedono la priorità dei diritti individuali e collettivi rispetto allo Stato e l’esplicito superamento dell’eguaglianza meramente formale fra i cittadini, tipica del costituzionalismo liberale. Art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, mentre l’articolo 3 al 1° comma afferma la pari dignità e l’uguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini, ma al 2° comma delinea quella che poi è stata chiamata democrazia sostanziale: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. È proprio intorno a questo nucleo iniziale, che configura un modello di Stato nuovo nei suoi rapporti con i singoli e i gruppi e non più neutrale dinanzi ai conflitti, che viene costruendosi l’accordo sostanziale su tutte le parti relative ai principi fondamentali, alla libertà, ai cosiddetti diritti sociali, con una convergenza prevalente dei costituenti dei tre maggiori partiti. “Fu quella -ha detto il presidente Napolitano nell’aula di Montecitorio davanti alle Camere riunite in seduta comune- una delle stagioni più altamente costruttive e creative della nostra storia nazionale. Il risultato cui si giunse fu possibile grazie a un confronto eccezionalmente ricco e approfondito e alla graduale confluenza -al di là dei contrasti e dei momenti di divisione che certamente non mancarono -tra le diverse correnti storico-culturali e politiche rappresentate nell’Assemblea Costituente.”10
4. Una prova, durissima, di questa convergenza si ebbe nella discussione sui rapporti tra Stato e Chiesa. In commissione si confrontarono due punti di vista: quello laico, rappresentato nella relazione dell’on. Cevolotto, e quello cattolico, elaborato dall’on. Dossetti. L’ampiezza delle divergenze era espressione di due diverse scuole filosofiche e giuridiche, ma emergevano anche due questioni più propriamente politiche: la salvaguardia della pace religiosa del Paese, e il valore del Concordato e del trattato del 1929. Quando il problema passò dalle sottocommissioni alla commissione dei 75 e da questa alla discussione in Assemblea, il dibattito mai scese di tono, nonostante taluni momenti di inasprimento degli animi per la intransigenza delle posizioni iniziali. Il 25 marzo del 1947, prendendo la parola dal suo seggio di deputato e non dai banchi del governo, De Gasperi sottolineò il rapporto esistente tra la questione religiosa e il rafforzamento delle istituzioni repubblicane, che risultò il punto decisivo per la svolta del dibattito: posto ai voti, l’attuale testo dell’art. 7 (“Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi: Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”) passò con 350 voti favorevoli e 149 contrari. Anche i comunisti votarono a favore. A conclusione del dibattito, prendendo la parola dopo De Gasperi, Togliatti aveva dichiarato: “la classe operaia non vuole una scissione per motivi religiosi.”11
5. Anch’esse attualissime, e tutte da rileggere a fronte dell’attuale situazione economica e lavorativa dei giovani, e delle quotidiane tragiche morti sui luoghi di lavoro, sono le norme del Titolo III - Rapporti economici dall’art. 35 all’art. 47. Ma qui bisogna anche rilevare il radicale cambiamento di orizzonti entro i quali lo Stato è chiamato oggi ad espletare il suo intervento: le costituzioni del Novecento avevano disegnato la riappropriazione dell’economico da parte del politico (art. 41 “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”), il nuovo secolo è cominciato con uno Stato sempre meno sovrano, sempre più spettatore inerme e cassa di risonanza dei grandi processi economico-decisionali che si snodano al di là dei suoi confini geopolitici e che gli sfuggono con il loro dinamismo, sovrastandolo con la loro portata, limitandone la capacità di intervento e rendendone incerte le decisioni. Ha sottolineato il prof. Gambino: “Lo Stato di fine millennio, nato per governare l’economia, finisce per piegarsi alle sue esigenze, alle sue tendenze, alle sue forze; forze che si sommano e si fertilizzano, determinando la crisi dello Stato sovrano e, con esso, anche il disfacimento del mondo democratico, delle sue istituzioni, delle sue leggi.” 12 Pensate per un momento all’attuale organizzazione del lavoro, al rispetto delle norme di tutela della matenità delle lavoratrici, all’applicazione della norma sul part-time, tutte situazioni giustificate con le necessità della concorrenza internazionale, e con i minori costi del lavoro in altri paesi. Eppure “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” recita chiarissimo l’art. 35. Si va verso una destrutturazione della sovranità dello Stato e verso la decadenza del Welfare alterando profondamente i tratti originari dello Stato costituzionale e svuotando di capacità di rappresentanza autentica gli attori della democrazia, i partiti, il parlamento, i sindacati. Un’analisi della crisi della rappresentanza ci porterebbe molto lontano: basti qui questo richiamo per sottolineare la complessità della questione che non si affronta con la superficialità dell’antipolitica, ma andando alla radice dei problemi.
6. Le altre questioni aperte, alle quali rimandano le discussioni di questi ultimi due anni sulle riforme istituzionali e sulla legge elettorale, riguardano l’ordinamento della Repubblica e, in particolare, la ‘forma di governo’, cioè il modo in cui sono organizzati i rapporti tra gli organi costituzionali e le modalità secondo le quali l’attività di direzione politica del Paese è distribuita tra questi stessi organi. Per affrontare tutte le questioni aperte è necessario ricreare tra le forze politiche quel clima di alta tensione culturale che animò i dibattiti alla Costituente. “Non sfuggì infatti, già allora, il rischio che l’ordinamento della Repubblica presentasse il punto debole di un’insufficiente garanzia della stabilità dell’azione di governo: stabilità legata anche -come l’esperienza politica e istituzionale dei decenni successivi avrebbe meglio chiarito- al grado di efficacia dei processi decisionali. Si è richiamato e si richiama, nelle discussioni su questi temi, come particolarmente significativa l’approvazione largamente maggioritaria, nel settembre 1946, da parte dell’apposita Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, dell’ordine del giorno Perassi……… Ci si pronunciò “per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi tuttavia con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Ma quei “dispositivi” non vennero adottati dai Costituenti per preoccupazioni e ragioni -legate a quella fase politica- che in sede di analisi storica si è cercato di ricostruire.13 Alla ipotesi di rafforzamento della funzione esecutiva, esaltando la posizione del capo del governo, non deve, non può corrispondere, tuttavia, l’indebolimento della funzione del Parlamento: le più importanti e significative esperienze istituzionali di presidenzialismo nei paesi democratici prevedono un ruolo forte delle assemblee parlamentari. Equilibrio di poteri sul quale si può lavorare in un rinnovato clima di tensione culturale fra le diverse forze politiche, recuperando lo spirito dell’Assemblea Costituente, che fu capace di discutere e approvare la Costituzione, nonostante la rottura della collaborazione governativa tra i tre grandi partiti popolari, la Democrazia Cristiana , il Partito Socialista e il Partito Comunista. Tensione culturale, dicevo, che è un lascito da non disperdere, anzi una eredità da rivalutare andando a cercarne l’origine e l’ispirazione nella lettura del testo della Costituzione. Che diviene il riferimento obbligato, la bibbia laica per la rifondazione della politica: quale che sia il nuovo lessico che si vuole utilizzare, quali che siano i luoghi e gli strumenti che si vogliono inventare, la politica deve tornare ad essere l’esercizio di quella sovranità, che, secondo l’art.1, appartiene al popolo, il quale la esercita attraverso quella “effettiva partecipazione dei lavoratori” indicata dall’art. 3. I cambiamenti, dunque, dei rapporti e delle procedure tra eletti e rappresentati, tra iscritti e delegati, tra sindacalisti e lavoratori, trovano già nella Costituzione un programma di apertura e di aggiornamento fondato sul valore della partecipazione, quello appunto che è necessario per rifondare le istituzioni della politica.14

SULLA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

Antonio Saraco - Magistrato

Devo da subito ringraziare gli organizzatori di questo incontro per l’affetto dimostratomi nell’avermi accordato fiducia su un tema così importante e impegnativo sia, e soprattutto, per avermi offerto la gradita e piacevole opportunità di essere un badolatese tra i badolatesi.
Come sempre accade però, le cose gradite e piacevoli hanno un prezzo.
Il prezzo che devo pagare, in questo caso, è l’adempimento dell’oneroso e faticoso incarico che mi è stato graziosamente conferito in questa occasione che è quello di dare uno sguardo alla Costituzione della nostra Repubblica a sessanta anni dalla sua nascita.
Credo si possa iniziare il nostro breve viaggio sul tema evidenziando come il nostro ordinamento giuridico, inteso come l’insieme delle regole che disciplinano la nostra vita e le nostre attività, sia composto da migliaia di norme.
Si stima infatti che esistono in Italia più di trecentomila leggi statali alle quali vanno ad aggiungersi le leggi di ogni singola regione e tutta un’infinità di altre disposizioni normative.
Questa sovrabbondanza di attività normativa farebbe pensare e certamente evoca una situazione caotica, di confusione totale, risultando assai difficile pensare che una tale pletora di norme possa essere ricondotta ad armonia.
Invece la situazione non è così caotica come potrebbe apparire. Non si ha una situazione di caos perché tutte le norme rispondono a delle regole precise che le ordinano (le mettono in ordine).
Una di queste regole è il principio gerarchico. In forza di tale principio si riconosce che alcune norme devono rispondere ai comandi, ai dettami di altre, sono subordinate ad altre norme. Si ha un’organizzazione per così dire piramidale.
In questa organizzazione il vertice della piramide è, proprio, la Costituzione.
Tutte le leggi, statali o regionali che siano, tutti i regolamenti emanati dal Governo o dalle autonomie locali, tutti gli statuti e anche la più piccola e la più banale norma è subordinata alla Costituzione e al suo cospetto, dinanzi ad essa, devono inchinarsi.
La Costituzione è il cuore stesso dello Stato.
Se lo Stato potesse essere paragonato ad un tempio antico, la Costituzione sarebbe il Sancta Sanctorum, ossia il posto più sacro del tempio, dove ha sede e viene custodita la divinità.
Pensate che ben tre Presidenti della Repubblica per definire la nostra Carta Fondamentale hanno utilizzato espressioni che rimandano al Sacro. Per primo Oscar Luigi Scalfaro, che l’ha definita una “resurrezione civile”. Poi Carlo Azeglio Ciampi, che l’ha definita una “bibbia civile”. Infine, da ultimo, l’attuale Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che l’ha paragonata alla tavola mosaica, ai dieci comandamenti di Mosè.
Ma perché questa enfasi attorno alla Costituzione? Perché è così importante?
Mi aiuta a dare la risposta un’altra citazione. Una citazione che è meno ieratica di quelle appena menzionate ma che proviene da altra altissima autorità dello Stato come è un Presidente della Corte Costituzionale.
Gustavo Zagrebelsky, così si chiama questo Presidente della Corte Costituzionale (ora emerito) ci dice che “La Costituzione è ciò che ci siamo dati quando eravamo sobri a valere per i momenti in cui siamo sbronzi”.
La definizione sembra quasi irriguardevole nei confronti della Carta fondamentale dello Stato che, come abbiamo visto, viene ammantata di una sacralità laica.
Eppure si avvicina tantissimo alla sostanza stessa della Costituzione.
Questo ben si comprende guardando alle origini della Costituzione e, particolarmente, al momento storico in cui essa veniva concepita.
La Costituzione nasce dopo la sbornia collettiva, la follia collettiva della seconda guerra mondiale.
Gli anni precedenti la nascita della Costituzione sono quelli del ventennio fascista, della compressione delle libertà civili e politiche, dell’abolizione del pluralismo politico e del controllo autoritario del pluralismo sociale; sono gli anni del totalitarismo statale e della concentrazione del potere in un unico vertice; sono gli anni in cui viene risaltata la guerra e il bellicismo nei rapporti con gli altri stati; sono gli anni caratterizzati dall’esaltazione della razza e dalla discriminazione in ragione della razza.
Tutto questo portò l’Italia alla rovina.
Qualcuno ha detto che alla fine della seconda guerra mondiale gli italiani erano sabbia.
Non secondo una valenza negativa. Ma per significare che tutto andava ricostruito e gli italiani, il Popolo Italiano era la sabbia da usare per ricostruire il tutto.
E fu così.
Il Popolo, quel Popolo Italiano, infatti, il 2 giugno del 1946, con il referendum istituzionale fu chiamato a scegliere tra Monarchia e Repubblica.
Furono chiamate a scegliere, per la prima volta, anche le donne.
Per la prima volta, quindi, in Italia tutta la popolazione veniva chiamata alle urne, senza distinzioni o esclusioni dovute al censo, al livello di istruzione, o all’avere adempiuto al servizio militare ovvero, appunto, al sesso.
L’unico requisito era la maggiore età che all’epoca si raggiungeva a ventuno anni.
Il popolo, dunque, tutti gli uomini e le donne italiane che avessero compiuto 21 anni, fu chiamato a decidere tra Monarchia e Repubblica.
Il Popolo scelse per la forma Repubblicana.
Agli elettori, però, non fu consegnata soltanto la scheda del referendum sulla forma dello Stato. Fu consegnata anche un’altra scheda con la quale dovevano scegliere, votare, i loro rappresentanti nell’Assemblea Costituente.
Dovevano scegliere, cioè, le persone che avrebbero dovuto fondare “costituire” il nuovo Stato, quello che stava nascendo.
Proprio l’Assemblea Costituente ha scritto la nostra Costituzione. Nell’assemblea costituente si sono seduti i Padri Fondatori della repubblica Italiana.
Fra questi ci sono nomi illustri oramai consegnati alla Storia: De Nicola, De Gasperi, Togliatti, Nenni, La Pira, Benedetto Croce, Einaudi e il Calamandrei.
Un altro nome occupava i seggi di quell’Assemblea Costituente e in seno ad essa fu uno dei veri artefici della nostra Costituzione tanto da esserne considerato uno dei padri.
Il suo nome è (era) perché oramai è morto, Costantino Mortati.
Ve lo segnalo perché questo signore è un calabrese di Corigliano Calabro che, dopo avere conseguito la Laurea in Giurisprudenza, quella in Filosofia e quella in Scienze politiche, da insigne studioso di Diritto Costituzionale venne eletto nell’Assemblea Costituente, dove, per come ho già detto, fu artefice nella redazione della Costituzione.
Andiamo a vedere le scelte operate dall’assemblea costituente così come registrate nei lavori della stessa e negli articoli della nostra Costituzione.
Ovviamente non è possibile una disamina articolo per articolo e di tutti gli articoli.
Cercherò di mettere in evidenza l’animo che ispirava i padri costituenti.
A questo scopo, mi piace iniziare dalla fine, dal momento della sua promulgazione perché, come da qui a poco vi farò vedere, i dettagli, quelli apparentemente insignificanti, senza importanza, a volte contengono la sostanza più profonda delle cose.
Il primo obiettivo dei padri costituenti era quello di pacificare lo Stato. Uno Stato che era stato diviso in due con la Repubblica di Salò da una parte e il regno del Sud dall’altra. Un Paese dilaniato dalla guerra civile, prima, e dalle esecuzioni sommarie, dopo.
La pacificazione doveva passare, necessariamente, attraverso delle norme che fossero riconosciute da tutti, che fossero di tutti e non soltanto della parte vincente.
Questo era essenziale.
Era essenziale che la Costituzione non fosse una mortificazione per i vinti.
I vinti nel Referendum soprattutto.
I vinti nel Referendum perché all’esito del Referendum i monarchici denunciarono l’esistenza di brogli e di condizionamenti e il Re (Umberto II) non accettò mai il verdetto delle urne, pur lasciando l’Italia per l’esilio. Prima di lasciare l’Italia sciolse i soldati dal giuramento di fedeltà al Re.
E allora, ecco il dettaglio che mostra il tutto.
La Costituzione della Repubblica Italiana è stata promulgata dal Capo Provvisorio dello Stato che era Enrico De Nicola.
Così, ovviamente, non vi dice niente.
Ma il nome e il fatto si riempie di significati se pensate che Enrico De Nicola, il primo Capo del nuovo Stato Repubblicano, il primo sottoscrittore della Costituzione della Repubblica, era un monarchico.
Vedete come viene simboleggiata la pacificazione, l’appartenenza della Costituzione e, quindi, del nuovo Stato a vinti e vincitori?
Su questa traccia, voglio segnalarvi un’altra cosa.
Si è detto, ed è storicamente vero, che la Costituzione è il risultato di un compromesso tra le tre grandi ideologie che erano rappresentate nell’Assemblea Costituente.
Voglio subito precisare che, almeno per questa volta, la nozione di compromesso non deve intendersi secondo un’accezione negativa. Per come ha avuto modo di spiegare Giovanni Maria Flick (Ministro della Giustizia e, poi, giudice della Corte Costituzionale) “Non è stato un compromesso al ribasso, inteso come reciproca rinunzia a una parte delle proprie convinzioni e pretese, pur di trovare un accordo a qualsiasi prezzo; ma al contrario, un compromesso alto, punto di incontro e di sintesi del patrimonio migliore di ciascuno, che ha saputo selezionare le più nobili e profonde istanze ideali delle tre correnti di pensiero. Quel compromesso garantisce, infatti, che la Costituzione sia di tutti, sì che ad essa le diverse forze, pur rimanendo antagoniste, potevano e possono appellarsi ad egual titolo”.
Il compromesso, quindi, per sottolineare che la Costituzione è di tutti.
Questo viene confermato dal fatto che l’approvazione definitiva della Costituzione avveniva a larghissima maggioranza, con soli 62 voti contrari sui 515 votanti.
La Costituzione, dunque, fu il frutto di questo compromesso alto fra le tre correnti ideologiche sedute in seno all’assemblea costituente: la corrente cattolico democratica, riunita nella Democrazia Cristiana che era anche il partito di maggioranza relativa; quella di ispirazione socialista e comunista e, infine, quella di matrice liberal-democratica.
E adesso, per la seconda volta, mi piace mostrarvi un dettaglio, nella speranza che non sia una mia perversione personale.
La Costituzione doveva essere sottoscritta dal Capo dello Stato, dal Presidente dell’Assemblea Costituente e dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
Riempiamo le funzioni con i nomi e le appartenenze.
La Costituzione fu sottoscritta da Enrico De Nicola, Capo Provvisorio dello Stato, appartenente all’area liberal-democratica; da Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente e co-fondatore del P.C.I.; da Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri, successore di Luigi Sturzo e leader della Democrazia Cristiana e, quindi, dell’area cattolico-democratica.
Viene così simboleggiata la partecipazione di tutte le correnti ideologiche alla formazione delle regole di base del nostro Paese.
È per questo che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel corso delle celebrazioni per i sessanta anni della Costituzione, pronunciando un discorso dinanzi il Parlamento in seduta comune ha definito la Costituzione “un patrimonio comune”.
Vediamo, a questo punto, come viene tradotto in norme il fatto che la Costituzione è di tutti; vediamo come un concetto si materializza in norme. Nel caso di specie in norme costituzionali.
Proprio perché la Costituzione è di tutti e non si vuole che sia modificata da una sola componente politica, magari maggioranza in un determinato momento storico, si è scelto di dare alla Carta Fondamentale dello Stato, una forma “rigida”.
Che cosa significa che la Costituzione è rigida?
Significa che essa, per potere essere modificata, abbisogna della partecipazione della quasi totalità della popolazione, o in forma mediata, attraverso i rappresentanti eletti in parlamento, ovvero in forma diretta, con il referendum.
Cercherò di rendere in maniera meno oscura il concetto, seppur certamente noto a voi tutti.
Le leggi dello Stato, come sapete, vengono votate in parlamento e per essere approvate necessitano della maggioranza dei votanti, ossia la metà più uno dei votanti presenti in aula, non la metà di tutti i componenti il parlamento ma soltanto di quelli presenti in aula.
Così non è per la revisione (la modifica) della Costituzione.
Per essere modificata la Costituzione, invece, non è sufficiente questa maggioranza che gli addetti ai lavori chiamano “maggioranza semplice” della meta più uno dei votanti presenti ma è necessaria una maggioranza che, per formarsi, necessita del consenso amplissimo, difficilmente a disposizione di una sola forza politica. È necessaria, infatti, la maggioranza dei due terzi dei componenti il parlamento.
È necessario, inoltre, che la modifica venga votata per due volte da ambedue le camere, a differenza delle leggi ordinarie che, invece, vengono votate una sola volta.
Se non si raggiunge la maggioranza dei due terzi, viene chiamato il popolo a decidere sulla modifica, con l’indizione di un referendum.
Con questo tipo di referendum si è votato in Italia per due sole volte. Tutte e due le volte in questo primo brevissimo lembo del XXI secolo. Si è votato, infatti, nel 2001 e nel 2006, con esiti opposti.
Nel 2006 è stata respinta dal Popolo la proposta di “devolution” avanzata dalla compagine politica facente capo a Berlusconi che aveva proposto un profondo mutamento dello Stato, con la modifica di ben 52 articoli della Costituzione sui 139 che la compongono.
Nel 2001, invece, al contrario venne approvata dal Popolo, con referendum, la riforma del titolo V della Costituzione, con la modifica di nove articoli, proposta dalla compagine politica facente capo a Prodi.
Con questa riforma è stata profondamente innovata la distribuzione della competenza legislativa tra Stato e Regioni. Prima, infatti, veniva attribuita alle Regioni la potestà legislativa, ossia la possibilità di fare norme, su singole materie tassativamente indicate mentre tutte le altre materie dovevano essere disciplinate dallo Stato, con legge statale.
Con la riforma della Costituzione, invece, ora, accade esattamente il contrario. Allo Stato viene attribuito il compito di disciplinare alcune materie tassativamente indicate, mentre per tutte le altre spetta alla Regione legiferare.
Con l’effetto di ampliare notevolmente la Potestà legislativa delle singole Regioni, tanto da far denominare la riforma con l’appellativo di “federalismo legislativo”.
Occorre tuttavia sottolineare come non tutte le norme della Costituzione possono essere modificate.
Non può essere modificata, neanche con il procedimento aggravato (così si chiama) la forma repubblicana.
Lo dice espressamente l’art. 139 della Costituzione che così dispone: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.
Nel supremo rispetto della volontà popolare che ha scelto questa forma di Stato.
Per cambiare forma, quindi, sarebbe necessaria una rivoluzione.
Ma, in maniera non espressa, sono considerate non modificabili anche tutte le norme contenute nella prima parte della Costituzione.
La Costituzione è divisa, infatti, in due parti.
La seconda parte è intitolata “l’ordinamento della Repubblica” e contiene le norme per così dire organizzative del funzionamento dello Stato. Vengono disciplinati il Parlamento, il Governo, la Magistratura, il Presidente della Repubblica, la Corte Costituzionale, il CSM, le autonomie territoriali (le Regioni) e così via.
Si dice che questa parte della Costituzione può essere modificata, seppur con quella procedura aggravata.
Si è aggiunto che può essere modificata ma cautamente, in quanto essa è inscindibilmente collegata alla prima parte della Costituzione.
Questa prima parte contiene, invece, i principi fondamentali della Repubblica, ossia i principi che sono le fondamenta stesse della Repubblica, la cui rimozione procurerebbe il crollo del nostro ordinamento.
Per questo si vuole che essi siano immodificabili.
Proprio in questa parte i padri costituenti hanno raggiunto la massima espressione di civiltà giuridica.
Sciascia ha affermato che l’Italia è una Paese senza memoria e senza verità.
Non so se questa affermazione risponda a verità e non spetta a me il compito di stabilirlo.
Certamente questa affermazione non è vera in relazione ai padri costituenti, ai redattori della Costituzione.
Infatti, l’Assemblea Costituente ha affermato i principi fondamentali della prima parte della Costituzione con la memoria vivida di quello che era accaduto nel ventennio fascista.
La Costituzione nasce proprio dalla memoria della distruzione sociale, materiale e civile provocata dal fascismo e sulla base di questa memoria, attraverso la Costituzione, in generale, e con l’affermazione dei principi fondamentali, in particolare, i padri costituenti rifiutano in maniera netta e decisa quell’esperienza e pongono le basi (le fondamenta) di un Stato che non debba più correre il rischio che quell’esperienza tragica si possa più ripetere, rifiutandola.
Proprio in quei principi fondamentali si ravvisa la maggiore modernità e la capacità della Costituzione di affrontare le sempre nuove istanze sociali.
Con essi, infatti, viene contrastata l’intolleranza e il rifiuto della diversità, l’antisemitismo, la violenza xenofoba, il fanatismo religioso, la violazione dei diritti umani, a cominciare dal diritto alla vita.
Risulterebbe probabilmente assai pesante ripercorrere e approfondire tutti i diritti fondamentali affermati nella Costituzione, così mi limiterò ad enunciarli in maniera certamente approssimativa.
Voglio, però, farvi saggiare la profondità delle espressioni utilizzate nella Costituzione, farvi notare come ogni singola parola rechi un significato che va al di là del significato letterale del lemma, essendo impregnato di tutta l’esperienza storica, civile e giuridica dei padri costituenti.
Voglio far passare questo assaggio dalla lettura esegetica dell’articolo probabilmente più famoso e più conosciuto della Carta Fondamentale, ossia l’art. 1 che, come tutti sappiamo, al primo comma, così recita: “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Quante volte l’abbiamo sentito?
Ma che cosa significa esattamente?
Andiamo a vedere il significato di ogni singola parola e vedremo come dietro questa proposizione così breve, forse un pochino lontana dal linguaggio comune, si nascondono piani infiniti di civiltà giuridica.
Innanzitutto, vediamo cosa significa Repubblica.
È Scipione l’Africano, più di duemila anni fa, già nell’antica Roma, che ci offre la nozione migliore di Repubblica: La Repubblica è ciò che appartiene al Popolo. Ma non è Popolo qualsiasi moltitudine di uomini riuniti in modo qualunque, bensì di una società organizzata fondato sulla base del legittimo consenso e sull’utilità”.
Se la cosa è del Popolo è una cosa di tutti e non è disponibile a questa o a quella parte politica.
Proprio per questo la forma Repubblicana non è soggetta a revisione costituzionale.
Nessuna maggioranza, anche laddove fosse pari all’unanimità, potrebbe cambiare questo connotato dello Stato.
Ma i padri fondatori hanno specificato che la nostra è una Repubblica “democratica”.
Quando in Assemblea Costituente, fu posta ai voti l’espressione Repubblica democratica si registrò una vera e propria unanimità di consensi, senza che quasi vi fosse una discussione sul connotato principale della forma repubblicana.
Questo perché l’aggettivazione “democratico” contiene i fondamenti di libertà e uguaglianza che sono i principi cardine del nostro comune sentire. Principio democratico significa, innanzitutto, che il potere politico deve promanare dalla collettività, attraverso istituti che garantiscano sia l’esercizio diretto del potere (i referendum); sia la manifestazione di volontà degli organi liberamente eletti (il parlamento); sia il rispetto e la garanzia reciproci nel rapporto tra i vari poteri; sia il riconoscimento delle autonomie territoriali.
Fin qui, quindi, abbiamo capito che lo Stato (l’Italia) appartiene al Popolo perché è una Res Publica e che questa cosa di tutti deve essere governata dallo stesso Popolo o direttamente, attraverso, ad esempio, i referendum abrogativi o indirettamente, attraverso gli organi rappresentativi, come il Parlamento. All’interno di questa cosa Pubblica il potere è diviso fra vari organi e ogni potere deve essere, al contempo, garanzia e controllo per l’altro.
Fin qui tutto chiaro e nulla di nuovo.
Arriviamo, finalmente, a quella che risulta il riferimento più sibillino della proposizione in esame: il fatto che questa Repubblica Democratica sia “fondata sul lavoro”.
Proprio questa, invece, se vogliamo, è l’espressione più innovativa, quella che attribuisce alla norma la sua maggiore attualità, la sua maggiore lungimiranza.
Con questa espressione la Repubblica, da una parte, ha voluto riconoscere che la dignità di ogni cittadino non deriva dal censo, dalla ricchezza, dal privilegio o dalla proprietà, ma -proprio- dal lavoro e dalla libera scelta di un’occupazione adeguata; dall’altra parte afferma che ogni cittadino ha il dovere di contribuire, attraverso il lavoro, al benessere collettivo e al concreto esercizio dei diritti fondamentali da parte di ciascuno.
Il lavoro, quindi, (ed è il Presidente del Senato della precedente legislatura, Franco Marini, che parla) è inteso dai padri costituenti “come mezzo di libertà, di identità, di crescita personale e comunitaria, di inclusione e di coesione sociale, di responsabilità individuale verso la società”.
Proprio il massimo risalto dato al lavoro considerato il motore stesso della Repubblica che quale mezzo di crescita personale e di responsabilità sociale fonda la Repubblica, dimostra l’attualità della Costituzione in un momento storico come quello che stiamo attraversando, soprattutto in Calabria, di precariato, lavoro nero e sommerso, elevati tassi di disoccupazione, e soprattutto i deficit di sicurezza nelle condizioni e nei luoghi di lavoro.
Un tale stato di cose, infatti, rende di massima attualità l’altro articolo della Costituzione che ha ad oggetto il lavoro, l’art. 4, dove si afferma che “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
È proprio il nostro Costantino Mortati che spiega, nel commentare l’art. 1 della Costituzione, che l’esercizio della libertà può diventare effettivo soltanto se preceduto dalla liberazione dal bisogno e dalla disoccupazione.
Perciò quell’articolo 4 è un urlo costante (o almeno) dovrebbe essere un urlo costante nelle orecchie dei nostri governanti, che dovrebbero adempiere quella promessa di rendere effettivo il diritto al lavoro a tutti, perché soltanto attraverso tale effettività si rende compiuta quella idea di Repubblica fondata sul lavoro che è contenuta all’art.1 della Costituzione.
Di grande rilievo e di grande respiro è anche l’art. 2 della Costituzione.
Con esso la Repubblica: riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Illustrare questo articolo nel breve tempo a nostra disposizione è praticamente impossibile per la molteplicità di significati in esso contenuti.
Basti pensare che con esso si afferma che è lo Stato in funzione dell’Uomo e non viceversa. Così allontanandosi definitivamente dalla concezioni passate in cui tutto e tutti andavano soggetti alla ragion di Stato. Questa è la concezione personalistica che impregna l’intera Costituzione. Il valore degno della massima tutela è, per la nostra Costituzione, la persona umana. Anche qui, l’esame esegetico della norma apre scenari di amplissimo respiro. Si guardi, a titolo di esempio, a quel verbo “riconoscere”.
Quello vuole significare che i diritti della persona non le sono attribuiti dallo Stato, ma che ogni persona ha questi diritti per sua stessa natura, e lo Stato si limita a riconoscere (appunto) ciò che già gli pre-esiste. Questi diritti fondamentali, inoltre, sono riconosciuti dall’art. 2 non solo al cittadino ma ad ogni Uomo, e, quindi, anche allo Straniero.
Questa constatatazione restituisce, ancora una volta, la grande attualità della Costituzione, di fronte al fenomeno e alle dimensioni dell’immigrazione nella nostra società.
Ancora, infine, l’articolo richiama alla solidarietà, così disegnando uno stato che non è egoistico e individualista ma al contrario, considerando la Repubblica come un’unica comunità (una e indivisibile, dice l’art. 5 della Costituzione), pretende che al suo interno vi sia solidarietà reciproca.
Principio di solidarietà, dunque.
Questa solidarietà viene pretesa, anzitutto, nei confronti dello stesso Stato verso le situazioni di disagio.
Si guardi, a tal proposito, l’art. 3 della Costituzione, che al primo comma afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali dinanzi alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Questo è il primo comma dell’art. 3, che viene definito principio dell’uguaglianza formale. Ma il costituente ha dimostrato di non essere miope; ha dimostrato di ben conoscere la società e di essere ben consapevole che, in realtà, in fatto, spesso le persone non partono da condizioni di uguaglianza e che alcune categorie sociali sono svantaggiate rispetto ad altre e perciò si ha una disuguaglianza in fatto.
Allora la Repubblica, in coerenza con quel principio di solidarietà enunciato nell’articolo precedente, ha preso l’impegno di eliminare queste condizioni di disuguaglianza e al secondo comma dello stesso articolo 3 afferma quello che viene definito il principio di uguaglianza sostanziale: È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Lo Stato, dunque, prende l’impegno di rimuovere le ragioni della disuguaglianza di fatto.
Notate quanto sia moderno e, purtroppo, attuale.
Nella prima parte della Costituzione, quindi, sono affermati tutti i diritti fondamentali, libertà personale, libertà di riunione e di associazione, libertà di manifestazione del pensiero, libertà di religione e parità tra le confessioni religiose, diritto alla salute, diritto allo studio, diritto al lavoro, tutela della famiglia, tutela della corrispondenza e del domicilio, tutela delle minoranze linguistiche, diritto di voto e di partecipazione democratica, diritto di difesa.
Sono i temi che si agitano quotidianamente nella nostra vita e nella vita della nostra società.
A dimostrazione della modernità della Costituzione e degli altissimi meriti dei padri costituenti.
Qualcuno ha detto che la Costituzione si presenta con un piano di governo che i Costituenti offrivano a quello che sarebbe stato il primo governo della Repubblica.
E tanto si è discusso sulla portata programmatica o immediatamente precettiva della Costituzione.
Nel corso della discussione che precedette il voto sulla Costituzione vi erano, ovviamente, differenti punti di vista sui contenuti concreti e, anzi sul modo di presentarsi della Costituzione. Senza appesantire troppo, in particolare, proprio il Calamandrei era contrario alle norme che non fossero di immediata attuazione perché temeva che il Popolo, leggendo norme non immediatamente attuabili potesse avere sfiducia nello Stato, sentendosi da esso sbeffeggiato, preso in giro e tradito.
Nel corso di questa discussione il Calamandrei cita Togliati che cerca di convincerlo del contrario citando, a sua volta, Dante.
Vado a leggere un brano che ho estratto dalla documentazione dei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, il resoconto della discussione del 4 marzo 1947: è Calamandrei che Parla all’Assemblea Costituente durante la discussione sul progetto di Costituzione: “Togliatti capì che il miglior modo per convincere un fiorentino è quello di citargli un verso di Dante. Togliatti mi disse che noi preparatori della Costituzione dobbiamo fare «come quei che va di notte- che porta il lume dietro e a sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte». Non dobbiamo curarci dell’attuazione immediata di queste pseudo norme giuridiche contenute in questo progetto: dobbiamo pensare ai posteri, ai nipoti e consacrare quei principi che saranno oggi velleità e desideri ma che tra venti, trenta, cinquanta anni diventeranno leggi. Dobbiamo così illuminare la strada a quelli che verranno”.
Proprio questo passaggio della discussione mette alla luce quella che è una caratteristica sin qui sperimentata della Costituzione e che l’ha resa capace di resistere in questi sessanta anni senza perdere lustro. Questa caratteristica è la capacità profetica degli eventi futuri, questo suo contenere norme capaci di disciplinare anche fenomeni e situazioni non previsti e non prevedibili al momento in cui venivano scritte le norme.
Voglio farvi un esempio per tutti.
Vi leggo l’art. 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Possiamo dividere l’articolo in due parti, entrambe di grandissima attualità e di grandissima importanza.
Nella prima parte si ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
È una norma che non dà adito ad equivoci e che, forte della memoria della guerra, rifiuta il bellicismo. Una norma di grande attualità, in un momento storico come il nostro in cui si cercano e si escogitano formule per dare legittimazione alla guerra: si dice che sia giusta la guerra cui si ricorre per esportare democrazia; quella per attuare l’ingerenza umanitaria; quella per attuare una legittima difesa preventiva; quella per combattere gli Stati Canaglia, sostenitori del terrorismo e così via.
La Costituzione, sul punto, è univoca, la guerra è ripudiata sia come strumento di offesa sia come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali.
Ha del miracoloso, invece, la seconda parte della norma, nella parte in cui si consente alle limitazioni di sovranità a condizione di parità con altri stati per favorire ordinamenti intesi a promuovere la pace e la giustizia.
Siamo nel 1947.
Ma già questa piccolissima norma, in realtà, descrive quella che dopo sessanta anni sarebbe stata l’Unione Europea. Infatti che cosa è l’Unione Europea? Altro non è che una limitazione di sovranità di ciascuno stato membro (ora vedremo che cosa significa limitazione di sovranità) al fine di costituire un nuovo ordinamento sovranazionale, con norme comuni, in condizioni di parità, al fine di promuovere la pace.
Dovete pensare che un periodo lungo di sessanta anni di pace sul territorio dell’Europa forse non si era mai registrato.
In questo mi possono dare conferma gli illustri professori che siedono in questo tavolo.
L’Europa è sempre stata il teatro di feroci guerre. Feroci guerre per lembi di territorio, lembi di sovranità disputata fra quegli stessi stati che oggi compongono l’Unione Europea. Come si è raggiunto questo obiettivo della Pace? Proprio rinunciando ad una piccola porzione di sovranità. Questa rinuncia è consistita nel fatto di consentire che le norme poste da questo ordinamento sopranazionale avessero effetto direttamente nel nostro Stato e negli altri stati membri. Pensate che nel caso in cui si dovesse imbattere in una norma dello Stato Italiano contraria ad una norma dell’Unione Europea, il Giudice deve disapplicarla, ossia deve fare finta che non esista e applicare la norma dell’Unione Europea. Pensate che la riforma del titolo quinto di cui ho fatto cenno, è stato modificato l’art. 117 della Costituzione che ora, al primo comma impone al legislatore statale e regionale il rispetto «dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
Proprio grazie a questa limitazione di sovranità è stato possibile l’abbattimento delle frontiere e la libera circolazione tra persone e cose nel territorio Europeo, la moneta unica, la bandiera comune, la cooperazione in materia di giustizia e di libertà.
E per fare accadere tutto questo non è stata necessaria alcuna modifica della Costituzione né escogitare architetture in quanto i nostri padri costituenti già avevano disegnato uno stato capace di rispondere a questa sfida.
Immagino che non sia necessario spendere altre parole circa l’attualità dei principi contenuti nella Costituzione.
Per comprendere l’importanza delle norme contenute nella Costituzione non si può tralasciare di sottolineare come il Garante della Costituzione sia il Presidente della Repubblica, ossia la carica più alta e la magistratura più elevata della nostra Repubblica.
In secondo luogo, proprio perché la Costituzione è di tutti e nessuno può violarla, neanche il legislatore, è stato previsto, dalla stessa Costituzione, un organo al quale è stato attribuito, tra gli altri, il compito di controllare che le leggi veramente si inchinino dinanzi ai principi della Costituzione.
Questo organo si chiama Corte Costituzionale. È un organo indipendente e autonomo ed ha un potere grandissimo. Pensate che nel caso in cui dovesse rintracciare una norma costituzionalmente illegittima, attraverso un procedimento che, per non tediarvi tralascio, la espunge dal nostro ordinamento giuridico. Ossia con una sentenza, sostanzialmente, viene abrogata una norma di legge.
Viene attribuito alla Corte Costituzionale lo stesso potere che il Legislatore esercita in Parlamento e il Popolo con il referendum. Ma con una procedura molto meno complessa.
Mi scuserete, a questo punto, se concluderò riportando il brano finale del discorso pronunciato dal prof. Leopoldo Elia attuale Presidente della Corte Costituzionale e, in quanto tale, quinta carica dello Stato e migliore osservatore possibile della Costituzione: “La Costituzione Repubblicana, anche grazie alle trasformazioni sommariamente ricordate, realizzatesi in sei decenni, ha dimostrato con la sua tenuta di possedere una prudente elasticità e attitudine a «comprendere» con i suoi principi, fenomeni non prevedibili dai costituenti: e tutto ciò senza perdere di significanza. Infatti questa apertura al nuovo si è sempre svolta all’interno dei principi del costituzionalismo maturato nella seconda metà del ventesimo secolo (personalismo, pluralismo, Stato democratico, libertà, giustizia sociale, organizzazione diffusa dei poteri che assicuri equilibrio e controllo reciproco, sistema di garanzie): un nucleo forte di costituzionalismo coerentemente accolto dalla nostra Costituzione. Per concludere -è sempre il Prof. Elia che parla- non mi resta che rivolgere l’antico augurio a chi dà opera al bene comune […] chi verrà dopo possa far meglio di chi ha operato prima. Faciant meliora sequentes”.
Mi è piaciuto riportare questo brano perché proprio nel saluto finale, a mio avviso, è raccolta l’essenza più pura, il messaggio stesso della Costituzione, rivolto a tutti, governanti e governati, politici e cittadini, cercare di far meglio, di migliorare, attraverso la memoria, le opere lasciateci dalle generazioni che ci hanno preceduto.
Al fine di illuminare la strada di quelli che ci seguiranno.

ATTI del Convegno sul 60°  della Costituzione - Direzione
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