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Data: 31/12/2015 - Anno: 21 - Numero: 3 - Pagina: 32 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

C’ERA UNA VOLTA A CATANZARO… E A BADOLATO?

Letture: 300               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

C’ERA UNA VOLTA A CATANZARO… E A BADOLATO?
LA “CORDAMÒLLA”.

Qualche lettore un po’ avanti negli anni sarà stimolato dal titolo a tentare di rimembrare una
breve filastrocca, un po’ storica un po’ scherzosa, sicuramente a Badolato, non sappiamo altrove,
chiaramente retaggio del periodo borbonico: “A Nàpuli nci stannu li carròzzi / a Catanzàru
zaχarèhr1i e lazzi / a Sant’Andrìa mbumbulèhr1i e gozzi / a Badulàtu mancu capi ’e cazzi”.
Pur senza volerci improvvisare storiografi di Catanzaro -il capoluogo della Regione ha le
sue benemerite persone che stanno portando alla luce buona parte del passato della città e non
solo- è nostro intento trattare questa volta di un particolare argomento, forse di non rilevante
importanza, che riguarda anche Badolato, e non proprio marginalmente.
Nel 1924 una ditta francese, “Le Petite”, realizzava a Catanzaro Lido, nei pressi del fiume
Corace, una fabbrica, la “Ledoga”, per la produzione dell’acido tannico, usato all’epoca come
conciante per pellami, come mordezzante per fissare il colore sulle fibre, come inchiostro e in
medicina come astringente.
Come mai una ditta francese qui da noi, nel profondo Sud della Penisola, in un periodo
storico in cui la globalizzazione era ancora lontana ben oltre mezzo secolo? A questa domanda
ci ha dato esauriente risposta un amico catanzarese appassionato cultore di storia locale.
Ci ha informato, tra l’altro, che l’imprenditore francese Annebicque Collet, vincitore della
gara d’appalto dell’illuminazione pubblica e civile della città di Catanzaro, nel 1878 iniziò a
Fondachello la costruzione del gasometro per la produzione di gas illuminante mediante la distillazione
del carbon fossile. La famiglia di Collet, ci informa l’amico, era la prima in Europa
nel settore dell’illuminazione, tanto da realizzare la prima
illuminazione pubblica in Inghilterra. Da noi operò
a Verona, a Caserta, ad Aversa, a Catanzaro. Non deve
quindi meravigliare la presenza di ditte francesi in Calabria,
anche se cinquant’anni dopo. Per quale motivo,
poi, si sia deciso di localizzare nei pressi del mare una
fabbrica la cui materia prima, il legno, si trova in genere
in collina e in montagna, non lo sappiamo. Leggiamo,
in una pagina utilizzata da internet per questa ricerca,
che “il tannino veniva ricavato dalla bollitura di legno,
foglie, cortecce ed in particolare querce, tutto materiale
proveniente dagli altipiani della Sila.” Noi non abbiamo
elementi per confutare tale asserzione, ma, in verità, la
Sila ci sembra un po’ troppo lontana per fornire il materiale
necessario a una fabbrica di Catanzaro Lido.
La fabbrica ha avuto una storia non tanto breve, florida
e produttiva, a giudicare da quanto abbiamo letto
in merito: occupava sino a 300 persone, oltre quelle del
piuttosto vasto bacino dell’indotto. Risulta -non dovrebbe
considerarsi strano per l’epoca- che ci lavorassero
anche numerosi Settentrionali.
La “Ledoga”, nel frattempo ribattezzata “Tannina”,
ha chiuso i battenti nel 1969 per la scarsa richiesta del
mercato. I suoi ruderi, col nome odierno poco noto di “Tonnina”, sono, però, ancora lì, nel
quartiere marinaro di Catanzaro Lido, imponente e interessante simbolo di archeologia industriale,
a ricordare nostalgicamente il passato e a stimolare tanto serie quanto pare vane riflessioni
sulla nostrana -e non solo- incapacità di valorizzare a livello culturale e turistico ciò che
ancora potrebbe connotarci, stimolaci, migliorarci.
Tornando al titolo di questo breve lavoro, la domanda “sorge spontanea”: che c’entra Badolato
con la “Tannina” di Catanzaro Lido? C’entra sì, perché un po’ di legno da cui si estraeva
l’acido tannico arrivava al Lido dalle colline del territorio badolatese, per iniziativa e opera di
Bruno Fiorenza (Badolato, 1904 - 1987), uno degli uomini più intraprendenti e ingegnosi, che
a Badolato non mancavano.
Bruno Fiorenza, detto “u
Gahr1u”, era uno dei primi autisti
badolatesi, e come tale ha
avuto per un periodo l’incarico
di trasportare la corrispondenza
dall’Ufficio postale di
Badolato allo Scalo ferroviario
e viceversa. È stato anche
uno degli elettricisti impegnati
ai lavori per la realizzazione
della Centrale Idroelettrica del
Romito. Poiché non gli mancava
la fantasia né la voglia di
fare, ci fu un periodo in cui si
dedicò in Badolato alla diffusione di una pianta la cui radice veniva usata nell’industria della
produzione del sapone. E ancora: in un campicello di cui era proprietario nel territorio di Santa
Caterina, si dedicò pure all’allevamento delle chiocciole per farne vermitùri (chiocciole dormienti,
in letargo) da vendere.
All’inizio del 1952 il Fiorenza, per aderire a richiesta di cui non conosciamo gli estremi
(da parte di chi? a quali condizioni? ecc.) cominciò un’attività che oggi definiremmo di partneriato
divenendo operatore dell’indotto della fabbrica per la produzione di acido tannico in
Catanzaro Lido. Ideò -da sé, presumiamo- una sorta di teleferica. Probabilmente influenzato
dalla conoscenza di quella realizzata circa quindici anni prima per il trasporto del materiale
boschivo da Butùlli a Santa Domìnaca, sempre in territorio di Badolato, stese una corda d’acciaio,
una sola, che dalla collina del Paglìo arrivava in contrada “Jardìnu”, alla periferia ovest
dell’abitato di Badolato. Dovendo attenersi alla ovvia prescrizione della competente Autorità
di non attraversare con la corda la strada rotabile (che porta dal paese allo scalo ferroviario), il
punto di arrivo è stato il ciglio esterno della strada, là dove, sino a circa venti anni fa, essa veniva
attraversata, ad alcuni metri di altezza, da una struttura in muratura, un canale che portava
l’acqua dalla fiumara della Rambàhr1i alla località detta Giardino (Jardìnu, appunto) per l’irrigazione.
Questo canale non c’è più da anni, ma tanti Badolatesi ancora viventi lo ricordano,
anche se convinti che si trattasse di una delle porte medioevali.
La corda d’acciaio, ad una sola campata, non era perfettamente tesa, ma leggermente avvallata
sopra la fiumara di Granèli: per tale avvallamento la rudimentale teleferica è passata alla
storia locale di chi ancora se ne ricorda col nome di cordamòlla.
Vi scorrevano non sappiamo quanti carrelli, solamente in discesa, in quanto l’elementare
impianto non prevedeva la risalita. Per cui, scaricato all’arrivo il legno così pervenuto in contrada
Jardìnu, i carrelli venivano riportati al Paglìo sulla testa di alcune operaie, che s’affrettavano
a ritornare in paese, per ripetere l’operazione: scaricare il legno dai carrelli e caricarlo
sul camion per il trasporto sino al Lido; quindi, riportare i carrelli al Paglìo.
Siamo al 1952, l’anno in cui nasce Badolato Marina. La guerra non è ancora lontana, e si
potrebbe ben dire che si sentono ancora i colpi del cannone, ma il parco automobilistico badolatese
ha già superato le poche unità esistenti in paese sino alla fine del conflitto: a trasportare
il legno a Catanzaro Lido si provvede con un Dodge di proprietà di Salvatore Staiano, guidato
dallo stesso Fiorenza.
Così per qualche anno. La piccola azienda non andava male, e sarebbe forse durata sino
alla chiusura della “Tannina”, se uno spiacevole imprevisto non ne avesse decretato la fine.
Bruno Fiorenza aveva l’abitudine di associare alle sue imprese qualche amico, ovviamente
non sempre lo stesso. Così avvenne anche per la “cordamòlla”. Avvenne pure -così mi viene
raccontato- che l’amico di turno, incaricato della parte contabile, distrasse un giorno tutto il
denaro dell’azienda ritirato dall’Ufficio amministrazione della “Tannina”. Conseguenza: la
“Cordamòlla” fallì. Il Fiorenza, volendo salvare la sua dignità, dovette disfarsi di alcuni suoi
poderi, vendendone alcuni e regalandone qualche altro, per pagare i suoi operai (Pultrone,
Lentini, ecc.) e le operaie (si ricordano le cugine Fiorenza). E pianse, Brunu u Gahr1u, a lungo,
notte e giorno perché non sapeva come procurare il pane per i suoi figli. Sino a quando la figlia
maggiore, ormai maggiorenne, non ottenne, facendo salti mortali, l’incarico di infermiera
all’ospedale di Locri. E da quella casa sparì la paura.
Vincenzo Squillacioti
(Si ringrazia sentitamente Teresa Fiorenza, figlia primogenita di Bruno Fiorenza, per la
disponibilità nel fornire una dovizie di notizie sull’argomento. Un ringraziamento, inoltre,
all’amico Silvestro Bressi per la collaborazione storica sulla città di Catanzaro e sull’imprenditoria
francese operante in passato qui da noi e in altre parti d’Italia.)



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