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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/04/2015 - Anno: 21 - Numero: 1 - Pagina: 11 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

FATTI MANDARE DALLA MAMMA A PRENDERE IL VINO

Letture: 323               AUTORE: Antonio Tropiano (Altri articoli dell'autore)        

È all’uscita della mostra di Morandi che, giù per le scale del Vittoriano, realizzo di non potermi
sottrarre allo stesso destino di Brecht, e con in mente ancora vivida la recente visione, mi avvio ad
apparecchiare il mio prossimo errore.
Intendo chiarire subito che la tentazione di banalizzare la poetica dell’artista bolognese non
mi ha mai sfiorato, e comunque non mi andava di attaccarmi alla bottiglia per spremerne l’ultima
goccia di suggestione letteraria. Tanto più che, a ben guardare, quelle raffigurate nei suoi quadri
nemmeno Baudelaire oserebbe chiamarle prigioni di vetro. A chi verrebbe in mente di servirsene
per il varo del Titanic, o per confezionarci dentro una imbarcazione in miniatura? Sono pressoché
sicuro che nessun naufrago gli affiderebbe neanche la propria richiesta di soccorso, e persino
Montale farebbe fatica ad immaginarle in «cocci aguzzi» in cima alle muraglie. No, no. Esse
sono fatte piuttosto di una sostanza immateriale: hanno la forma del vuoto che non contengono e
l’aspetto del tempo che non le ha mai consumate.
Mi spiego peggio per spiegarmi meglio! C’è un dipinto che Edouard Manet realizzò tra il
1881 e l’82 dal titolo Un bar aux Folies-Bergère. Ad ogni modo, bisogna che facciate lo sforzo di
cercarlo, per non rischiare di rimanere imbottigliati nel traffico delle parole. Ebbene, l’elemento
più suggestivo dell’opera è senza alcuna incertezza l’espressione rarefatta della barista. Ogni volta
che osservo il quadro mi ripropongo di indugiare sulle bottiglie disposte sul bancone: talvolta
cerco pure di indovinarne il contenuto dalla foggia o dall’etichetta. Mi sono persino intrattenuto
nell’ozioso esercizio di verificare la corrispondenza delle rifrazioni nello specchio; ma la verità è
che non riesco a distogliere lo sguardo per molto tempo da quel volto. Non ne conosco altri di pari
evanescenza. Intendiamoci, io non parlo di mestizia o di ombrosità; al contrario, quello a cui mi
riferisco è un sentimento geografico: lei non è lì dove qualcuno ha voluto dipingerla, le mani che
cincischiano dietro le file di champagne e Pernod appartengono alla tipa del quadro non sono le
sue; e persino lo specchio riflette quanto accade nella sala, non certo ciò che lei sta fissando.
Bene, tenete a mente questa immagine, appena il tempo che io la corredi del vezzoso aneddoto
di una “sbronzografia”. Riferisce Blaise Cendrars (quello con la testa a mo’ di fiasco capovolto…
per capirci) che durante un afoso pomeriggio estivo a Parigi, si fece convincere da Modigliani
ad acquistare una buona scorta di vino e ad andare a tracannarlo lungo le sponde della Senna
in prossimità di un vecchio battello-lavatoio. Racconta che per ovviare al caldo torrido Amedeo
avesse escogitato lo stratagemma di mettere a mollo nella corrente del fiume le bottiglie legate
ad uno spago. Dopo averne fatto fuori un paio e sentendo gli strepiti delle ciarliere lavandaie
di rimpetto, il genio livornese pensò bene di offrirne una alla più brutta di quelle a patto che si
lasciasse baciare. E provocato dalle smancerie delle megere, ritenne di poter camminare sull’acqua
prima di ritrovarsi, incapace di nuotare, in balìa dei flutti. Fu ripescato dal proprietario del barcone
insieme all’amico di sbronze che intanto era accorso in suo aiuto. Il resoconto dell’episodio a
questo punto conclude: «Ne seguì il fragore delle vecchie diavole che ci prendevano per il culo
mentre asciugavamo i vestiti sul bordo del fiume, con il padrone che ci strapazzava e Modigliani,
nudo come una mano, e bello come San Sebastiano, che vuotava la bottiglia che non aveva mollato
e parlava di come ritentare l’impresa».
Orbene, adesso che ci penso ne ho viste anche io di bottiglie, colme di boria di mercato o
svuotate di disperazione; impolverate da cimeli o in frantumi di rabbia. Le ho viste farsi dono da
lusinga e arnese del contundere; arbitrare le contese e cagionare il disappunto. Oggetto ed obiettivo,
bottino e rifiuto, riscatto ed espediente… tutto nel medesimo corpo vitreo. Eppure mentre do le
spalle alla mostra, mi faccio persuaso che quelle di Morandi, né più né meno di tutte le altre
bottiglie terraquee conservino incustodita la natura molteplice delle sabbie da cui sono state fuse:
che le si guardi estranee ed incorporee sotto gli occhi della barista di Manet o irriverenti ed audaci appese allo spago di Modì. Miracolo della sineddoche!

Messaggio nella bottiglia

A cu’ trova stu pirettu
dintu l’unda o supa a rina,
leja attentu stu bigliettu
comu fussa medicina.
“On cridira ca trovasti
nu tesoru ormai perdutu,
o nu gridu ’e naviganti
chi ti cerca ncun’aiutu.
Sent’a mia caru cumpara
non ti hfara stran’idei
duva staiu nte stu mara
sugnu sulu cazzi mei.
Staju bonu e su’ cuntentu
nte chist’isola deserta
ca on chiova e on mina ventu
e non serva na cuperta;
mangiu e bivu quandu vojju
fazzu a vita do rimita
e si mentu troppu ojju
on mi ruppunu a pipita.
Propriu apposta ti scrivivi
ca finivi tutt’u vinu
e si penzi ca cca vivi
on tu linchi u cannarinu.
Si ti trovi ’e chisti chiani
non passara pe sta via
ch’a buttiglia c’hai nte mani
era l’urtima ch’avia.


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