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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/08/2008 - Anno: 14 - Numero: 2 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

GIUSEPPE CASALINUOVO

Letture: 1325               AUTORE: Antonio Barbuto (Altri articoli dell'autore)        

Tra i primissimi acquisti dall’impareggiabile (per tempi e luogo) “emporio” del maestro Fera, per il tramite della erede sorella donna Delina, ci sono di Giuseppe Casalinuovo Dall’ombra (1907) con dedica dell’autore “all’amico Domenico Fera per ricordo, San Vito agosto 07”, Celebrazioni (1936) con dedica “a Domenico Fera cordialmente, sett. 36”, e il volumetto Catanzaro per Franco Berardelli (1933) che riproduce la commemorazione del giovane poeta scomparso fatta a Catanzaro il 14 maggio 1933, con le adesioni di molte personalità culturali e politiche del tempo.
Fu una lettura naturalmente appassionata -avrò avuto quattordici o quindici anni- mentre La lampada del poeta l’ho avuta in prestito dal mio compagno di scuola Mimmo Caminiti che l’ha presa dalla biblioteca della nonna baronessa Marincola, come pure Amo dunque sono di Sibilla Aleramo con dedica dell’autrice e i Colloqui di Guido Gozzano.
Forse non è inutile rilevare che questi indizi documentano la mia “trascuranza” per le materie del versante scientifico a vantaggio degli evidenti interessi letterari con la conseguenza di bocciature scolastiche oltre ogni decoro.
Ma mi riconosco interamente nella mia eversione ostinata, come nella lettura del Jacopo Ortis foscoliano, nella grigia BUR, che mi costò trecento avemarie per penitenza inflittami dal confessore di turno e la confisca del volumetto.
Se il compiacimento di sottolineare il vizio solitario della lettura, specialmente quella non imposta, mi viene spontaneo nello scrivere il pezzo per “La Radice”, mi trovo da un lato a rivisitare i nostri scrittori “magni” del passato e dall’altro a eseguire quella sorta di “autoritratto per procura” che mi ostino a ritenere l’unica mia forma identitaria di scrittura.
Non sono in grado di riferire le emozioni di quella lontana lettura. Ma quando nel 1981, nelle edizioni Laterza, apparve il volume comprensivo della produzione poetica di Casalinuovo intitolato Giornata breve, curato dai figli Aldo, Mario e Clara per festeggiare il novantatreesimo compleanno della madre, è stato naturale per me acquistarlo e leggerlo durante le vacanze estive, nella mia residenza di Canale kilometrotre, come di consueto dedicate alle letture “estravaganti” e di disinteressato piacere.
Ma un’esile traccia riesco a ricavarla dalla memoria distratta da altro: ai tempi ha avuto certamente molta presa sul mio fantasticare adolescente la facondia della prosa e il tono dolente della poesia sulla mia indole malinconica, che poi ho scoperto configurato nel pascolismo consapevolmente accettato e quindi nelle forme e nei temi del crepuscolarismo che caratterizzò alcune esperienze di quel tempo.
Questo fatto mette in evidenza che Giuseppe Casalinuovo fu un poeta che andò subito al di là dei confini regionali e trovò una sua naturale collocazione nei modi e nei toni di una esperienza poetica, quella pascoliana soprattutto e nondimeno quella crepuscolare, di livello nazionale di grande importanza culturale, come ognuno sa, rifiutando di fatto l’invasiva presenza dannunziana e i clamori di quella carducciana.
E, se permettete, non è poca cosa.
Giuseppe Casalinuovo nacque a San Vito sullo Jonio il 16 agosto 1885 dove frequentò le scuole elementari, trasferendosi nel 1895 con la famiglia a Catanzaro e qui frequenta il ginnasio e il liceo nel famoso “Galluppi” dove aveva insegnato Luigi Settembrini; vale la pena ricordare che altri straordinari scolari furono Francesco Fiorentino, Antonino Anile, Corrado Alvaro, Umberto Bosco, Ernesto Pontieri. Suo maestro preferito fu Vincenzo Vivaldi autore apprezzato anche “extra moenia” di Una polemica nel Cinquecento e le controversie intorno alla nostra lingua pubblicato presso l’editore Morano di Napoli nel 1901, in decorosa evidenza nella mia bibliotechina di cose calabresi.
Qualche mese prima di conseguire la maturità classica nel 1905 pubblica Anno di sangue dedicato a Giolitti, Presidente del Consiglio: tre poesie in endecasillabi ispirati ai fatti di Cerignola dove il 17 maggio1904 una sommossa contadina per le terre era stata repressa dall’esercito: due contadini morti e sette feriti: “il loro sangue corse caldo, a rivoli/e l’arma di Giolitti ne fu rea […]caddero rassegnati come martiri e chi l’uccise è un vile”.
Si scrive alla Facoltà di Giurisprudenza a Roma, nel dicembre del 1905 gli muore la madre. È un trauma che condizionerà per sempre il giovane Casalinuovo e sarà il motivo dominante della prima raccolta di poesie Dall’ombra edita dalla Società Tipografica Editrice Nazionale di Torino nel 1907.
Nella breve premessa si legge: “Questo libro è fatto per le creature infelici. Esso è un vivo documento di vita vissuta, e potrebbe dirsi scritto in un campo santo, tanto è triste. Nelle sue pagine sta chiuso, come in un sepolcreto semplice, tutto un periodo della mia vita, dal primo sogno infantilmente tenue dell’adolescenza, all’ultimo dolore insanabile della giovinezza, finita precocemente a venti anni. I suoi versi li ho raccolti, dolorando, palpito per palpito e lacrima per lacrima, in ogni attimo. Sono nati e son vissuti con me, soli soli, nell’ombra; e adesso escono dall’ombra dove sono nati per passare nell’ombra dove morranno” .
La morte della madre diventa fatto centrale e nucleo ispiratore della sua poesia e questo lo accomuna al Pascoli da cui prende spontaneamente maniere del verseggiare senza però raggiungere il livello del poeta romagnolo che fu il “disintegratore della metrica tradizionale”, come scrisse Alfredo Schiaffini.
“Anima, avanti, avanti,/corri lontan dall’ombra, dalla mia mente ingombra/strappa i più bei canti”.
I dodici sonetti che compongono Mater rappresentano il punto più alto della raccolta che ha momenti di alta drammaticità: “Suonò tutta la via dei nostri pianti,/tutti i vicini corsero al tuo letto:/nella stanza fu un lungo andirivieni/e un lamento non udito mai”.
Si può dire che tutta la poesia di Casalinuovo trae spunto da fatti di vita vissuta da cui deriva il tono colloquiale molto vicino al parlato: “Non piangere. Nessuna piaga sana/la lacrima; la lacrima non lava/nessuna cosa. Quètati: più grava,/se si ricorda, la sventura umana”.
C’è una poesia che caratterizza ampiamente la produzione di Casalinuovo ed è Il pioppo solo.
Nel 1909 si laurea e torna al paese dove inizia una straordinaria attività di avvocato, tra i penalisti più autorevoli del Foro catanzarese.
Ebbe meritata fama nel campo forense per la solida preparazione giuridica, la vasta cultura umanistica e per la fascinosa facondia oratoria. Tanto è vero che le sue arringhe venivano regolarmente pubblicate nelle riviste giuridiche più accreditate.
Dalle fotografie che ho potuto vedere appare un uomo bello, alto, snello, occhi azzurri e capelli folti svolazzanti: svolse la sua attività come una missione e si può riconoscere che la somma di tristezza che lo caratterizzava lo induceva a cercare negli infelici un punto di coinvolgimento umano e affettivo: da qui derivava l’impegno e la palpitante adesione coi suoi “clienti” nell’intreccio arido dei codici e delle leggi.
Vent’anni dopo la pubblicazione della prima raccolta, nel 1929 esce presso il prestigioso editore bolognese Zanichelli La lampada del poeta che riprende e svolge ampiamente contenuti, forme e toni, improntati al diffuso e consapevole pascolismo della prima raccolta.
Il mondo poetico di Casalinuovo è circoscritto nella geografia degli affetti familiari, tenaci e fortemente dichiarati, nell’osservazione e descrizione affettuosa e partecipe del mondo degli umili e dei perdenti colti nella loro psicologia elementare, nella sua trasparenza semplice e immediata. Sicché l’impressione complessiva che si ricava dalla lettura del volume è quella di un mondo affettivo di autentica immediatezza nobilitato dai segni del dolore e delle sofferenze storicamente e socialmente ineliminabili.
Ripreso dal Pascoli il titolo, per Casalinuovo la poesia è una lampada che si alimenta col suo canto attraverso le impervie strade del mondo, un canto che illumina e riscalda ogni vita triste, fino a quando la lampada non si trasforma in un grande incendio che brucerà lo stesso poeta.
È Ritorni, la prima poesia, che esprime compiutamente il tono generale della raccolta: “Io voglio tornare tra i sentieri/dei verdi vigneti e degli orti,/ghirlanda di pii cimiteri/comuni per vivi e pei morti;/ io voglio rifare i sommessi/viali dei campi nativi,/tra pianti di cupi cipressi/o liete canzoni d’ulivi;/io voglio ancor oggi vedere/le aurore sui picchi dei monti,/e attendere voglio le sere/stellate, guardando i tramonti;/e piangere voglio, se il pianto/irrora le strade del mondo,/ma tergere voglio nel canto/la pena del cuore profondo”.
In questa raccolta le sezioni svolgono temi diversi -gusto delle piccole cose, attenzione per gli umili, invito alla bontà, idillio agreste, senso fortissimo della famiglia, lunga presenza dei morti- che documentano una maggiore maturità umana e artistica espressa nella limpidezza della forma e del ritmo e nella perizia dell’uso del sonetto.
Le otto Celebrazioni, pubblicate nelle Edizioni de La Toga nel 1936, contengono gli indizi sufficienti degli interessi culturali e le predilezioni di Casalinuovo: letteratura e musica come risulta dai titoli: Giovanni Pascoli, Paolo Serrao, Luigi Settembrini, Percy Bysshe Schelley, Giacomo Puccini, Vincenzo Gerace, Franco Berardelli, Riccardo Wagner.
In ogni artista “celebrato” Casalinuovo trovava e faceva emergere un dettaglio che diventava nella sua appassionata esposizione il centro della sua argomentazione e della sua lettura indiziaria, per finire inevitabilmente e quasi senza essere avvertito dalla coscienza critica del lettore, come un fatto personale dell’oratore, nonostante si rivolgesse al pubblico col retorico “signore e signori” ripetuto opportunamente a distanze studiate e, diremmo oggi, di notevole efficacia mediatica.
Le Celebrazioni sono introdotte da una lettera al “Padre mio caro e lontano” datata Catanzaro, giugno 1936, nel giorno di San Vito. La lettera contiene gli elementi base della geografia sentimentale e affettiva dell’autore.
A me preme rilevare un’osservazione acuta che Casalinuovo fa a proposito della resa emotiva che le “celebrazioni” scritte vengono a perdere rispetto alla pronuncia orale. Egli scrive: “Or nella lettura, molti periodi sembreranno inutili, parecchie frasi parranno superflue, alcune ripetizioni potranno stancare, e ci saranno magari delle cose che potranno dirsi di cattivo gusto. Lo so. Ma, per non giudicarmi con soverchio rigore, bisogna ricordare che ogni espressione di eloquenza, quale che sia la grande o la modestissima arte di chi l’esprime, diventa cosa morta nelle pagine che la riproducono [… ] Il libro è un po’ come il sepolcro di qualsiasi espressione retorica. Questa ha la sua vera vita nella parola parlata, la quale sola può dare tono e colore al nostro pensiero e al nostro sentimento; e tale vita nasce e muore nell’attimo fugace in cui la parola è percepita dall’uditorio e fonde in un sol palpito l’anima di chi parla con l’anima di chi ascolta.”
Certo che la prosa delle Celebrazioni, la sola che io conosco, è bella e trainante per l’andatura impetuosa e talvolta travolgente e sempre comunque suadente nell’ampio giro della frase, frutto dell’alta scuola giuridica e retorica coltivata che ha nutrito la formazione culturale e il gusto del Casalinuovo.
Nel volume postumo, curato dai figli, comprensivo delle due raccolte già edite e dell’inedita Ore di vespero, “da più parti e con insistenza […] sollecitata” come annota con garbo il figlio Aldo nella breve premessa, abbiamo la conferma dell’immagine storicamente definita e conosciuta del poeta. I motivi sono quelli costitutivi delle precedenti raccolte perché i nuovi testi finora inediti nulla aggiungono: la nostalgia delle cose passate, gli anni che trascorrono inesorabilmente, la bontà, l’amore chiudono il cerchio d’una vita e di una operosità di alto spessore e caratura morale: si pensi alla non celata avversione nei confronti della dittatura fascista.
In Cuore stanco vi sono i presentimenti della fine vicina che accade, all’improvviso, a Catanzaro il 25 ottobre 1942: “Come sei stanco, o mio povero cuore./Stanco, non sai di che; forse di bene,/ forse d’amore; forse di dolore// Forse vicina è l’ora; e così sia”.



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