Data: 31/03/2006 - Anno: 12 - Numero: 1 - Pagina: 24 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
IN RICORDO DI NICOLA CAPORALE |
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AUTORE: Antonio Barbuto (Altri articoli dell'autore)
Registriamo, con legittima soddisfazione anche da parte nostra, la piena realizzazione delle manifestazioni programmate per ricordare il professore Nicola Caporale nel primo centenario della nascita, avvenuta il 25 gennaio 1906. I Soci del Circolo Letterario che dall’Autore scomparso prende il nome, tutti i Soci fondatori (ad eccezione del presidente, Giuseppe Caporale, in non buone condizioni di salute), dal vicepresidente professor Giovanni Bove al preside Antonio Fiorenza già alunno e poi collega del Caporale, al professore Antonio Piperata che sta interessandosi al pensiero politico del Nostro, a Luisetta Caporale che è l’instancabile organizzatrice, agli altri Soci che per l’occasione non hanno risparmiato energie, tutti hanno profuso notevole impegno per realizzare -ci limitiamo qui al solo elenco- le seguenti manifestazioni: - il 22 gennaio 2006, nei locali della scuola media di BadolatoMarina, l’inaugurazione della Mostra di Pittura con la relazione del maestro Piero La Rosa, presidente dell’AS.CA di Soverato e con il commento della Critica d’Arte dottoressa Francesca Londino; - il 24 gennaio 2006, nella chiesa SS Angeli Custodi di Badolato Marina, Celebrazione Eucaristica presieduta da Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Antonio Ciliberti, Arcivescovo Metropolita di Catanzaro-Squillace; - il 25 gennaio 2005, nei locali della scuola media di Badolato Marina, Premiazione degli alunni dell’Istituto Scolastico Comprensivo “Tommaso Campanella” di Badolato; il concorso, grafico-artistico-letterario, ha avuto per tema “Il mio paese”; si sono avuti momenti musicali dell’Orchestra dell’Istituto Scolastico diretta dal maestro Marco Maida; -il 28 gennaio 2006, sempre nei locali della scuola media di Badolato Marina, Conferenza del professore Antonio Barbuto, docente all’Università “La Sapienza” di Roma, dal titolo “L’amore, il sentimento della natura, il fascino dei luoghi, le piccole cose in Nicola Caporale, spirito romantico, poeta elegiaco”; momenti musicali del Duo pianistico a quattro mani pofessoresse Silvia Calascibetta e Maria Carmela Micò; momento poetico della signora Domenica Piperissa; testimonianze degli ex alunni professore Antonio Fiorenza, professoressa Antonietta Belviso, ragioniere Franco Nisticò (in nome del padre, Guerino, malato), signora Domenica Piperissa. Commetteremmo grave errore se tacessimo qui dell’interessante mostra “Carta, penna e calamaio…: la scuola dei nostri bisnonni”, dovuta all’intelligenza e alla passione del ragioniere Antonio Fiorita. Né va taciuta la bella serata con Otello Profazio nella chiesa di San Domenico a Badolato Superiore, il 29 dicembre 2005. Nel quadro delle manifestazioni del Centenario va pure compresa la realizzazione del Calendario 2006 “Il mio paese” riproducente tele e versi dello Scomparso. Altro Calendario 2006 nel ricordo di Nicola Caporale è stato realizzato in Argentina, e qui distribuito, dal dottor Salvatore Carnuccio, alunno del maestro Caporale negli anni Trenta dello scorso secolo. è stato anche ristampato il poema in lingua “Il mio paese”, l’opera forse più nota di Nicola Caporale. Di quanto fin qui scritto è stata pubblicata di volta in volta la cronaca a cura di giornalisti della carta stampata e della televisione. Noi abbiamo chiesto al professore Barbuto la relazione con la quale ci ha calamitati nella serata conclusiva delle manifestazioni, il 28 gennaio scorso. Il professore, ormai da anni a noi vicino senza riserve, ha soddisfatto la nostra esigenza per cui abbiamo il piacere di pubblicarla qui di seguito, senza neanche un nostro aggettivo, comunque sicuri non solo di fare cosa gradita a tanti nostri lettori, ma anche un’operazione squisitamente culturale.
Devo anzitutto ringraziarvi dell’onore che mi avete fatto invitandomi a parlare di Nicola Caporale in occasione del centenario della nascita. Confesso, con imbarazzo, che non ho frequentato la sua opera con la sollecitudine e la cura che meritava, ma ho ben impresso nella memoria il primo incontro con lui: quando studente di primo liceo ebbi l’improntitudine di pubblicare un libricino di versi e di portarglielo a via Trento e Trieste, a Soverato, dove abitava -dopo l’alluvione del ’51- una casa di quella che sarebbe diventata poi mia fidanzata e moglie. Lo conoscevo però indirettamente perché leggevo “Calabria letteraria” di Emilio Frangella -vi pubblicai anch’io una poesia- a cui Caporale collaborava con una certa assiduità. L’incontro si risolse come era naturale che fosse: con l’incoraggiamento a proseguire, ma a studiare di più per imparare a usare correttamente i ferri del mestiere. Io non so se ho appreso la lezione, ma certamente me ne sono ricordato sempre nel prosieguo del tempo, come dimostra il fatto che non ho pubblicato libri di poesia, anche se la sessantina che ho scritto finora sono state affidate a riviste e ad alcune antologie di poeti calabresi. Naturalmente sto sorridendo di quanto ho detto ma devo pure in qualche maniera tentare la captatio benevolentiae e quindi allontanare il più possibile quel tono sopra le righe che di solito gli oratori ufficiali assumono in siffatte circostanze. Ho risposto positivamente al cortese invito perché mi andava di parlare di un poeta in una manifestazione culturale a Badolato perché ho un buon ricordo delle occasioni a cui ho partecipato vivaci per intelligenza, ardore culturale e grande capacità organizzativa. Ho accettato l’invito anche perché dopo quell’incontro -ricordo libri accatastati, quadri e riviste come “La fiera letteraria”- credo di aver rivisto Caporale poche altre volte. Ma nella memoria, distratta d’altro, ogni tanto si faceva largo un sentimento di rimpianto perché intuivo che forse l’avrei potuto conoscere meglio e naturalmente tutto a vantaggio mio. Ma così non fu e me ne dolgo. Ma nella memoria, oltre al ricordo del primo incontro, è rimasto anche quello della lettura di Ritrovarsi, il libretto pubblicato nel 1948 dall’editore Gastaldi di Milano perché segnalato al “Concorso Nazionale Gastaldi 1948 per la Poesia”. Ora, per la maggior parte di voi, credo che il nome dell’editore Gastaldi non dica nulla o quasi. Eppure in quegli anni era l’editore di poesia più conosciuto, attento alla produzione dei cosiddetti giovani e addirittura -con molto coraggio, ricordiamoci la data- aveva una collana intitolata “Poeti d’oggi”, dove appunto è uscito il libro di Caporale. Io quel libro non l’ho più avuto, ma ci ha pensato l’amico Fiorenza a mandarmelo insieme ad altre opere, vista probabilmente l’insistenza con cui citavo quel titolo nelle nostre conversazioni, come se quel poemetto racchiudesse e comprendesse da solo un’operosità durata decenni, ricca di decine di titoli. Io non sono in grado di spiegare razionalmente questa cosa, ma sta di fatto che il mestiere che ho esercitato m’induce a puntare la specola su un testo-campione e pazientemente smontarlo rilevando gli elementi di cui è fatto che nel caso d’una poesia si tratta di scelte linguistiche e lessicali, forme metriche, figure retoriche impiegate a esprimere quella sostanza che nella sua definizione vulgata viene chiamata contenuto. Ma, per favore, stiamo attenti perché il contenuto appartiene a tutti, per così dire, ma il modo come viene espresso è solo di quell’autore, per cui noi distinguiamo un verso di Leopardi da quello di Carducci per la cifra speciale con cui il poeta ha rappresentato magari un medesimo contenuto. è tanto vero che la differenza è stabilita dalla capacità formalizzatrice d’un autore che persino il materialista e marxista Gramsci, nelle primissime pagine di quel libro, editorialmente intitolato Letteratura e vita nazionale, avverte senza perifrasi: “Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento storico-sociale, ma uno può essere artista e l’altro un semplice untorello” . Ma tutto questo è spiegabile assai agevolmente se appena si riflette sul fatto che il poeta prende le parole del vocabolario (langue), ma le sceglie (parole) con una cura tutta speciale e vi ritorna sopra moltissime volte fino a quando ritiene di aver trovato quelle giuste che esprimono compiutamente il suo pensiero. Vogliamo fare un esempio? Tutti ricordate la chiusa di A Silvia di Leopardi : “e con la mano/La fredda morte ed una tomba ignuda/Mostravi di lontano”. Nel linguaggio quotidiano ignuda, tra l’altro aggettivo non tipicamente leopardiano, significa spoglia, priva etc. Ma nell’uso specifico leopardiano acquista un valore aggiunto perché traduce l’ideologia negativa, atea leopardiana: cioè in quella tomba non c’è niente perché non esiste nulla dopo la morte: il n’y a pas de paradis. Con questo abbiamo toccato un altro aspetto: quello che la parola poetica, oltre al significato letterale, ne possiede altri perché allude ad altro, alla storia personale del poeta, alla storia in generale, perché il poeta è un uomo-crocevia di spinte intellettuali, economiche, sociali che dialetticamente coesistono nell’atto dello scrivere, nel momento in cui il poeta prende la penna “e a quel modo/ch’ei ditta dentro va significando”. Forse ora possiamo assumere Ritrovarsi come testo-campione delle nostre esercitazioni critiche che devono però portare in superficie tutti quegli elementi che coesistono palesemente, oppure sotto traccia, che noi a torto o a ragione, riteniamo capaci di rappresentare adeguatamente l’arte poetica di Nicola Caporale. Vi sono buone ragioni per respingere l’obiezione che è perlomeno arbitrario appoggiarsi su un solo testo quando ci sono almeno una trentina di libri. Ma questa obiezione, per quanto legittima, riduce l’operazione critica al racconto dei contenuti dei libri, cioè ai temi che ricorrono nelle varie raccolte. Io ho deliberato di rifiutare simile operazione perché credo che sia più utile e vantaggioso, per il poeta oggetto dell’indagine, condurre un’investigazione su quella capacità tecnica -ricordiamoci che poeta deriva dal greco poiein=fare- che è il risultato finale di un concorso di emozioni e fedi, di ideologie e memorie involontarie, di dottrina teorica e di applicazione e di tante altre cose: insomma una poesia è un organismo où tout se tient, e tutto si tiene non per miracolo ma per “lungo studio e grande amore” che induce il poeta “noctes vigilare serenas”. Petrarca s’incavolava terribilmente quando un lettore dichiarava di non aver inteso una sua pagina dopo solo la prima lettura. Quella pagina che a lui era costata tanta fatica ne esigeva altrettanta dal lettore. Eppoi, contro ogni regola del galateo critico, mi piace commemorare il poeta Nicola Caporale col testo che me lo fece conoscere, una sorta di prima volta che col senno di poi ci permette di tornare all’inizio, una sorta di incipit da cui tutto gemina. Ma ancora: Ritrovarsi vuol dire anche tornare indietro à rebours, ricomponendo i frammenti d’una identità lacerata e ritrovare quella verginità della parola che Leopardi ne La Primavera o delle favole antiche riscopre adoperando le parole nel loro significato latino o delle origini fino a Poliziano a petto della desemantizzazione dei poetini del suo tempo; che Pascoli rintraccia nel “fanciullino” e Ungaretti nella dichiarazione “Sarò innocente/avrò un cuore puro”. Ho segnalato solo alcuni vettori della modernità e forse per questa mia disposizione sono stato indotto a scegliere Ritrovarsi come campionatura dell’attività poetica di Nicola Caporale. Ora passiamo alla esplorazione dell’universo mondo che in forma di poesia Caporale ha voluto trasmettere sotto l’urgenza dell’ispirazione, come si diceva una volta. Per legittimare solennemente la mia proposta di lettura e quindi toglierle eventualmente e definitivamente ogni possibile etichetta di arbitrarietà, permettetemi di citare alcune righe di metodo che un critico tra i più affidabili nel panorama italiano -Pier Vincenzo Mengaldo- ha scritto all’inizio di un suo saggio su Pasolini. Mengaldo scrive: […] ho preferito ai discorsi generali e magari generici, la specie critica a me non discara della lettura di un singolo testo: certo mi auguro che questa, convocando un dato numero di elementi con-testuali, possa attingere qualche proposta più ampia; comunque invito a considerare che una lettura di testo ha raggiunto il suo scopo quando ha cercato di illuminare meglio che ha potuto quel testo, senza salire troppo ultra crepidam. Naturalmente va considerato che nella nostra circostanza non siamo chiamati a scrivere un saggio critico, né un’esercitazione come quelle che facevo fare ai miei studenti dell’Università di Roma per far loro imparare il mestiere di leggere o, come diceva De Robertis, del “saper leggere”. Qui ci troviamo in una felice occasione: quella di celebrare il centenario della nascita d’un nostro concittadino poeta e scrittore. Ma questo fatto ufficiale non deve distoglierci dal rispetto che dobbiamo avere per quello che ha prodotto: che per me significa, scusate se sono molto esplicito, evitare assolutamente il tono retorico che di solito affligge e deturpa simili circostanze. Ecco allora che la scelta del principio metodologico, sopra annunciata, ci aiuta certamente a non falsare la concretezza dei testi che abbiamo letto, senza false lusinghe o astrattezze perniciose. D’altra parte c’è anche un elemento con cui dobbiamo fare i conti: purtroppo non tutti hanno letto tutte o in parte le opere di Nicola Caporale e quindi questo fatto ci induce maggiormente a poggiare il nostro discorso sulla concretezza dei testi. Ma essendo pressoché impossibile riferirci particolarmente a tutta la produzione, cediamo anche noi all’abitudine scolastica di elencare, seppure velocemente, almeno alcuni temi che s’impongono più di altri all’attenzione del lettore di queste opere. Generalmente la poesia italiana è libresca, cioè si riproduce per una sorta di partenogenesi dai Siciliani della corte di Federico II° ai poeti di oggi. E la lingua poetica è pressoché simile da Dante a Zanzotto. Questi due fatti si spiegano pressappoco così: la poesia traduce per sua natura in forma di parola i sentimenti dell’uomo -la letteratura veniva definita autorevolmente studia humanitatis- che sono sempre gli stessi e uguali nel tempo: l’amore, l’odio, l’amicizia, l’amor di patria, il senso di precarietà, la solitudine, la malinconia, l’ambizione, il paesaggio etc. E nel campo della lingua: come si sa non vi furono differenze perché le classi sociali nella storia dell’Italia erano nettamente separate da valichi insormontabili: la classe aristocratica, il clero e i servi della gleba. La cultura era appannaggio delle prime due che per secoli hanno usato, nella poesia, una lingua statica che riproduceva quella adoperata dal poeta immediatamente precedente o quasi, e nelle opere filosofiche e di scienze varie usavano il latino. In più: in Italia non abbiamo avuto rivoluzioni sociali per cui la situazione fu sempre paradossalmente gattopardesca. Di conseguenza abbiamo una lingua poetica pressoché immobile. Provate a ripetervi qualche verso di Dante, Ariosto, Foscolo, Leopardi, d’Annunzio, Montale, Caproni, Sereni etc.: vi accorgerete che non c’è alcuna difficoltà di comprensione immediata del senso letterale. Queste considerazioni apparentemente didattiche, se non svagate addirittura, ci immettono immediatamente nel punto centrale che attiene alla collocazione storico-culturale di Nicola Caporale. Dall’esame esperito delle sue opere risulta abbastanza agevolmente che in Caporale convivono due aspetti in certo senso opposti e complementari. Da una parte Caporale evidenzia una formazione letteraria che per comodità definiamo di tipo tradizionale. Cioè il suo apprendistato si svolge essenzialmente nelle forme e negli spiriti della letteratura italiana fino a d’Annunzio. Naturalmente non c’è nessuna diminuzione critica in questa considerazione. Basti pensare che -scusate l’accenno autobiografico- nel 1958, l’anno della mia maturità classica, agli esami presentavamo tre poesie di d’Annunzio. Nono solo: ma all’Università le cattedre di “Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea” erano soltanto tre: a Roma, a Messina e a Urbino. Ma per tornare a Caporale: in un paese come Badolato o Soverato dove non c’era una libreria che esponesse libri di autori contemporanei -quella di Adamo a Soverato era esclusivamente scolastica- cosa poteva fare un laureato in Lettere con ambizioni di scrittura poetica? Ancora: in pieni anni sessanta, tornato a Soverato da Urbino con laurea e seicentomila lire di debiti in libri, dovevo andare a Catanzaro a fornirmi di quei libri di cui avevo notizia nei primi supplementi letterari e nelle terze pagine dei quotidiani. Quindi la sostanziale formazione tradizionale era fatale. Aggiungo: per fortuna, perché sappiamo quanto sia formativa anche, se non soprattutto, per i contemporaneisti. Ma accanto alla formazione tradizionale, in Caporale è venuta crescendo anche, sempre più consistente, una tendenza moderna con forti richiami alle forme e agli spiriti del ’900 più avanzato che proveniva dalle avanguardie storiche, come l’uso del verso libero e di quelle forme di versicoli di cui Ungaretti è riconosciuto unanimamente come il più accreditato produttore insieme ai cosiddetti poeti ermetici. Questo secondo aspetto della poetica di Caporale è stato possibile perché Caporale non si è accontentato della lezione dei suoi classici, ma si è disposto -da vero intellettuale- alla conoscenza e alla utilizzazione delle esperienze letterarie coeve, faticosamente inseguite tra infinite difficoltà di reperire i testi che si pubblicavano in Italia. Detto questo, passiamo immediatamente a disegnare la mappatura di quegli elementi che concorrono a definire quella che abbiamo chiamato formazione di tipo tradizionale. Sono costretto purtroppo a eseguire un puro e semplice elenco. Al primo posto va collocato senza dubbio l’aggettivazione usata da Caporale per la sua funzione tipica di qualificare il nome cui si riferisce: vetusti, nove, scudate, timidette, picciol, atra, meschinello, miserello, satolla, romito. Al secondo posto, e comumque cospicuo, l’uso di forme verbali come : facea, apria, si asside, involve, indìa, sen va, rimembra, pascè, plorando, crescea, salia, volgea. Poi ci sono i sostantivi come: aere, foco, peplo, gromma, seccura, buiore. E quelle costruzioni del tipo: de l’alte, da presso, su le, da lungi, pel, da l’imo, pria. Su questi lasciti “culti” s’innestano come nervature strutturali quelle forme di memoria storica e involontaria che sono i prestiti o addirittura le citazioni dai nostri autori classici che rappresentano le credenziali d’una formazione “corretta” secondo regola e uso. Bastino alcune citazioni: “che dal profondo sommesso/corse tra loro” ricorda Carducci di Davanti San Guido; “che dal profondo al sol manda Natura” richiama il Foscolo d’un luogo dei Sepocri; “Laudato sia” calco da San Francesco; “involve” è verbo foscoliano: “e involve/tutte cose l’oblio nella sua notte”; “la neve/che ridente piovea su te quel ramo”: reminiscenza petrarchesca; “l’anima presa da l’incantamento”: richiama “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io/fossimo presi per incantamento”; “il tremolio de l’onda chiara” si rifà a “il tremolar de la marina” dannunziano; “la bella persona”: calco da Dante ( Inf.c.V,) “la bella persona che mi fu tolta”; “piovorno” è aggettivo carducciano; “infinito silenzio” è citazione leopardiana. Ma c’è anche la presenza di Montale in due luoghi: “il giglio/assetato di luce e di passione” ricorda il “portami il girasole impazzito di luce”; “un frullo d’ali in volo”; e “Foglie siam tutti” di matrice greca in traduzione leopardiana; e il topos, abbondantemente certificato, “il canto che si eterna”. A livello di tecnica va indicata una sinestesia “felicità sonora” e un chiasmo “e questo e quel toccando/e quello e questo al suo tocco s’intosca”. Ma va ricordato anche che Caporale ha affrontato l’esperienza del sonetto e questo ritorna a tutto suo merito in quanto evidenzia che la frequentazione dei classici ha fruttato anche l’apprendimento e il riconoscimento del componimento più famoso e anche più difficile della versificazione italiana. Ma, come ultima considerazione, valga la pena sottolineare l’ambizione poematica. Ritrovarsi è un poemetto in endecasillabi sciolti di quattro parti che nella sua costruzione rimanda ai poeti borghesi di fine ottocento (Betteloni per es.), ai crepuscolari (Gozzano in primis: da La Signorina Felicita a Le Farfalle), a Cesare Pavese che in pieno ermetismo pubblica Lavorare stanca e teorizza la poesia-racconto, il racconto-immagine sul modello di Walt Withman sulla cui opera ha scritto la sua tesi di laurea. Seppure l’uso costante dei versicoli, di cui s’è detto, documenti l’attenzione e la consapevolezza d’essere contemporaneo, il titolo Ritrovarsi ci rimette in piena tradizione mediante il tema del viaggio che, metafora della vita, racchiude il senso d’ogni articolazione sia nella sua espressione di viaggio verso l’ignoto (“misi me per l’alto mare aperto”), sia come itinerario verso “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, sia, infine, come viaggio a ritroso (à Rebours) per ricomporre i frammenti d’una identità lacerata e smarrita e riscattarla in luce di poesia che sola dura “finché il Sole/risplenderà su le sciagure umane”. Che la scelta di puntare la nostra attenzione su un testo-campione non sia stata arbitraria lo dimostra anche e soprattutto il fatto che nelle altre raccolte di versi che seguirono quel volumetto, sia a livello di tecnica sia a livello di contenuti abbiamo una sorta di coazione a ripetere di quello che costituiva il nucleo di Ritrovarsi . Per esempio: la sostanziale espressione lirica dei sentimenti più elementari: l’amore permanentemente ed esclusivo in Cuore al vento; la contemplazione della natura da sempre abbondante pascolo per i poeti descrittivi del Settecento, fondale di quell’amore sognato e inaccessibile che lega il poeta al proprio inferno di solitudine e di rimpianto. Vi è forse in più la presenza di un accento di protesta civile come nel poemetto La bomba H e nella dichiarata sezione della raccolta di poesie dialettali sotto il titolo ’a Catarra, dove i tradizionali motivi della poesia vernacola trovano un’espressione immediata e genuina del migliore Caporale. Perché, pur coi dovuti debiti alla tradizione più nota e diffusa, Caporale anima la sua poesia di una presenza multipla di quei personaggi che costituiscono la vera vita d’un paese nei luoghi deputati della piazza, della strada, della chiesa, della bettola dove attraverso il filtro dell’occhio del poeta vengono esibiti i tic, le frustrazioni, le speranze, la malinconia e il disinganno d’una società chiusa e rassegnata non già e non solo per quel fatalismo atavico che ci contraddistingue, ma perché la poesia è più incline a rappresentare “le cose che avrebbero potuto essere e non sono state”, ovvero la storia delle vittime, ovvero ancora dei perdenti di tutte le latitudini come in forma sublime intuì il poeta della mia adolescenza, Ugo Foscolo “e tu onore di pianto Ettore avrai” che certamente situa l’eroe troiano a un livello superiore rispetto all’arroganza di Achille e degli Atridi. Dopo tutto, ringraziandovi ancora una volta per l’invito, volevo riaffermare la mia volontà di celebrare la poesia nel nome di Nicola Caporale. Non potendo leggere se non in minima parte e stravolgendo fatalmente una carriera poetica svoltasi per decenni, ho deliberato di offrirvi alcune indicazioni fornendovi qualche grimaldello per accedere ai segreti d’un mestiere difficile come quello del poeta, pari per difficoltà al mestiere di vivere. Ma senza sorprenderci più di tanto, perché se si può proporre la formula di “letteratura come vita”, con altrettanta credibilità possiamo definire la poesia come invenzione di un mondo alternativo (“io nel pensier mi fingo”) a quello che siamo condannati a vivere. Infatti, si finisce col riconoscere, senza trionfalismi e indulgenze consolatorie, che la vita si vive o si scrive.
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