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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/09/2003 - Anno: 9 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

LA PROVA

Letture: 1280               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

A Mingiàno si scorgeva ancora qualche favilla tra le stoppie, debole e moribondo residuo dell’incendio provocato nella serata dai fuochi d’artificio. E si avvertiva un odore di bruciato, che diventava intenso quando spirava il vento da Zi’ Frinda. La luna dava un netto contorno e un argenteo colore alla vallata del Granèli e alle colline che dal Paglìo e da Ceramingiàno degradavano verso Zangàrsa, Cuzzùhra e Petrinìgri. Si stagliava netto tra gli alberi il convento dei Francescani, ormai al buio; e la chiesetta di San Rocco, dove poche ore prima la Madonna della Sanità aveva sostato in attesa che il giorno se ne andasse, per cominciare, con la luce delle fiaccole, il percorso verso il paese scendendo per la pendìna degli Angeli. Accarezzato dai raggi lunari, brillava quasi il baraccone dei baroni Paparo, come protetto dalla solida masseria fortificata. E la rotabile, che s’inerpicava da San Leonardo, laggiù nella marina, sino al vecchio paese, sembrava un nastro d’argento a mezza costa, tra le acque del torrente a fondo valle e gli uliveti della Passerèlla.
La gente dormiva. Concluso ogni rito, e lasciata la Madonna alla Matrice, ognuno aveva fatto ritorno a casa, perché l’indomani e il giorno successivo ancora erano giorni feriali, e il lavoro dei campi non concedeva tregua, neanche alla fine di agosto.
I pochi giovani contadini che ancora s’attardavano ahru chjanu de Carra sembravano avere smarrito il sonno quella sera. Avevano dato man forte allo spegnimento dell’incendio e, dopo cena, s’erano ritrovati, come quasi ogni sera, per giocare a coràzza, appoggiati alla sponda del carro ‘e Pettinèhru. Dopo qualche ora, spossati dal peso degli amici da sopportare vicendevolmente sul groppone, smisero di giocare e, come per una precedente intesa, cominciarono a parlare di morti, giacché l’incendio provocato dagli spari aveva lambito quella sera il disadorno cimitero, adagiato ai piedi del convento, tra San Rocco e Seràno.
Cominciò Pascàla ‘e Rà Rà, e raccontò di una processione di morti che, in abito bianco, incappucciati e con in mano una candela accesa, ogni anno, la notte della vigilia di Natale si snoda per le vie del paese, percorrendo la strada dei Santi. Vincenzino da Catarisàna riferì che anche al paese di sua madre aveva sentito raccontare che spesso i morti, anche lì incappucciati e con una candela in mano, alla vigilia delle feste comandate fanno il giro delle chiese. E Micu parlò di quella Messa celebrata a mezzanotte nella chiesa di San Domenico, e tutti i partecipanti erano regolarmente morti. Pure Natu disse d’aver visto un morto, alto non meno di tre metri, passare una sera d’inverno sotto le finestre di casa sua. Ci fu poi un momento di pausa, occupato dal passaggio di un grosso cane nero, che era sbucato come dal nulla e si dirigeva verso il Giròne, lungo la strada che porta in fiumara, a Mingiàno, alla marina, al convento. E anche al cimitero, pensò qualcuno della brigata che s’era fatta improvvisamente muta.
Ruppe il silenzio Peppi da Janca, per dire che lui morti non ne aveva visti mai, e non credeva che se ne potessero andare in giro a piacimento per mettere paura alla gente. Per lui i morti erano morti, e basta. Perciò non aveva paura, e questo suo coraggio lo rendeva ancor più simpatico alla sua fidanzata, con la quale, però, non andava d’accordo, perché lei alle processioni notturne dei morti credeva, ché sua madre non si stancava di raccontarle sogni e fatti veri che riguardavano i morti, e specialmente le anime del purgatorio, le quali stanno sempre al tripòdu del focolare. Peppi proprio no, ai morti non ci credeva. E per dimostrare che i morti non hanno più niente a che fare con i vivi era disposto ad andare da solo, proprio in quel momento, sino al cimitero, ed entrarvi, scavalcando il cancello del terzo piano. I compagni, che lo conoscevano bene, sapevano che sarebbe stato capace di fare quanto diceva, perciò non gli diedero corda. Ma lui, per dimostrare che le sue non erano soltanto parole, decise di andare comunque, nonostante il silenzio degli amici. E perché l’indomani si potesse dimostrare che c’era veramente andato fu deciso che nell’angolo della cappella che guardava verso il convento avrebbe conficcato per terra un legno. Scavalcò quindi il muretto, staccò da un’acacia un ramo le cui spine gli fecero sanguinare la mano, ma non disse “ahi!”. Risalito sulla strada, s’avviò a passo veloce verso l’arco, tagliuzzando con il coltello il ramo per farne un appuntito piolo, mentre la camicia, di robusta ginestra, svolazzava fuori dai pantaloni di fustagno.
La luna era ormai alta nel cielo. Tutt’intorno non si sentiva voce umana. Anche gli amici di Peppi erano col fiato sospeso. Il grosso cane era ormai scomparso alla vista. Si sentiva lo stridore di qualche grillo, il verso del cuculo a Cromatìa, e il mormorio dell’acqua del Granèli a fondo valle. Alla “curva” alzò gli occhi in alto, verso gli amici ancora appollaiati al muretto: “Ciau -gridò con voce chiara- mi raccumàndu, aspettàtami.” E scomparve sopra l’orto ‘e Ndringhi.
Superato il ponte di Granèli pensò per un attimo alla sua Teresùzza, che aveva visto in processione e poi in chiesa, ma non era andato a cenare a casa sua quella sera perché impegnato a spegnere l’incendio degli spari. Su per la petta degli Angeli la sua ombra si proiettava sul selciato; e gli amici, trasferitisi intanto alla cura d’accurtatùri, taciturni e pensosi ne contavano i passi. Sino alla chiesa di San Rocco. Poi scomparve dietro l’ultima curva nei pressi del cimitero. Qualche minuto ancora e avrebbe scavalcato il cancello, avrebbe piantato il piolo e sarebbe tornato trionfante al Giròne dove l’aspettavano con trepidazione e paura i suoi amici.
*****
L’Ardìtu uscì da casa appena fece giorno per raggiungere, come ogni mattina, il campo dei morti, per tenerlo pulito e ordinato, per meritarsi con onore, da Ardito d’Italia, la stima e la fiducia e lo stipendio di tutta la Comunità.
Ancor prima di infilare nella toppa la pesante chiave del cancello a monte, scorse per terra un’informe sagoma umana, all’angolo della cappella. Affrettò l’apertura e vi si precipitò, per sapere: un giovine giaceva per terra, morto; una falda della sua camicia era trattenuta al suolo da un grosso piolo conficcato nel terreno, accanto un grosso sasso.
Peppi da Janca, non avvedendosi d’essersi distrattamente inchiodato al suolo, fece per rialzarsi e tornare dagli amici che l’aspettavano. Ma si sentì tirato per la camicia, e pensò che i morti lo stessero bloccando. Il giovine ebbe paura, e fu la fine.


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