Data: 30/04/2014 - Anno: 20 - Numero: 1 - Pagina: 15 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
LETTERATURA DI PROTESTA NELLA CALABRIA POSTUNITARIA |
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AUTORE: Caterina Guarna (Altri articoli dell'autore)
Tra i ricordi di Nicola Misasi, scrittore calabrese (Cosenza 1850 / Roma 1921) si legge degli entusiasmi che l’unificazione dell’Italia appena avvenuta aveva destato in Calabria, ma anche dei primi dubbi: “ricordo il delirio patriottico di Cosenza al giungere di un reggimento di soldati piemontesi, nostri fratelli; io però non capivo come quei soldati ci fossero fratelli…..” (Articolo “Ricordare è rivivere” pubblicato in Le tre Calabrie il 2 ottobre 1922). In effetti, al primo folle entusiasmo e alle grandi speranze e illusioni che l’avvenuta unificazione aveva destato nell’animo di tutti, sarebbe presto seguita una realtà molto diversa. Dopo il plebiscito che votava per l’Italia unita, che fu interpretato come una semplice richiesta di annessione al regno dei Savoia, non si badò che a unificare e a pareggiare tutto, senza guardare molto per il sottile. Ecco quanto avvenne, nella narrazione di uno storico del tempo (Marc Monnier, “Notizie storiche sul brigantaggio nelle province napoletane” - Firenze 1862): “I consorti (erano così chiamati gli esponenti del governo provvisorio, per lo più settentrionali o esuli rimpatriati) posero le mani su tutto, non d’altro curandosi se non di affrettare l’assorbimento del Regno di Napoli nel nuovo Regno d’Italia. Le tariffe doganali furono rovesciate da un giorno all’altro, provvedimento del quale l’industria locale soffrirà per molto tempo. I codici furono modificati in senso piemontese; e fu grave rammarico per i giureconsulti del paese, che giustamente consideravano come ottime le loro leggi, e null’altro lamentarono, nei tempi dei Borboni, che non fossero eseguite. In quasi tutti i rami dell’amministrazione si cambiarono i nomi conservando le cose, mentre l’arte suprema, dopo una conquista, sta nel cambiar le cose conservando i nomi. Invece di render meno sensibile la transizione si fece il contrario, aumentando i poteri di Torino a spese di quelli di Napoli”. Le condizioni economiche dell’Italia meridionale si aggravarono notevolmente con l’unificazione del debito pubblico, l’imposizione di nuove tasse, l’aumento dei prezzi, “che assorbirono gran parte del suo non molto capitale, mentre all’industria del Settentrione, vieppiù arricchita per concentrazione di uomini e di amministrazioni e di lavori richiesti dalla difesa militare, si apriva un mercato nel Mezzogiorno, nel quale sparivano di conseguenza l’industria locale e quella domestica” (B. Croce, “Storia d’Italia dal 1871 al 1915” - Bari 1924). La stessa realtà si era rivelata agli occhi degli osservatori piemontesi mandati nel Sud nel 1861, dopo i primi disordini: “Partito unitario a Napoli non esiste, oserei affermare che non vi hanno venti individui che desiderano l’unità e questi sono degli emigrati, o han posti nel governo unitario” scriveva in un suo rapporto il deputato Diomede Pantaleoni a Marco Minghetti, ministro degli interni dell’appena nato Regno d’Italia. Era chiaro che l’inevitabile situazione di peggioramento in cui l’ex Regno di Napoli si era subito venuto a trovare non poteva che suscitare disagio e malcontento, soprattutto nel popolo che mai aveva capito bene la questione dell’Unità e mai l’aveva avuta a cuore. “Non appena caddero le prime bende -scrive Giustino Fortunato- parve al Nord di essersi accompagnato con un corpo morto, al Sud di aver troppo perduto nel far getto della sua autonomia; per molti anni quello credette di pagare esso solo per tutti, questo di essere considerato non altrimenti che una terra di conquista; superbo sino alla insolenza il primo, irrequieto e loquace il secondo” (“Povertà naturale del Mezzogiorno” in “Nuova Antologia della questione meridionale” di B. Caizzi).
E la protesta prese forma concreta: già subito dopo la partenza di Garibaldi si erano organizzate le prime bande e il brigantaggio divampò con forza sempre crescente, fomentato all’inizio, anziché attenuato dalla dura politica di repressione del governo piemontese, trascinandosi per anni con varie crisi e riprese, durante i quali fiumi di sangue furono sparsi. Accanto alla rivolta armata un’altra forma di protesta si levava contro gli errori del governo sabaudo, soprattutto da parte della classe più avanzata del Meridione, che con più ardore e consapevolezza aveva partecipato alle lotte del Risorgimento e che ora con maggior delusione vedeva frustrate le proprie speranze. C’è tutta una letteratura che fiorì in quegli anni esprimendosi in varie forme, da parte di gruppi o di singoli individui che si facevano interpreti del profondo disagio in cui versava tutto il Meridione: tra questi c’erano anche quei patrioti che avevano combattuto ed erano stati perseguitati sotto il dominio borbonico, come Domenico Mauro (San Demetrio Corone, 17 dicembre 1812 – Firenze, 14 gennaio 1873), che denunciò il trionfo della soluzione moderata in una infuocata campagna elettorale per le elezioni politiche del 1865. In forma più pacata, ma con maggior forza di convinzione si esprimeva Vincenzo Padula, nato ad Acri e vissuto tra il 1819 e il 1893, fondatore del giornale “Il Bruzio”, che uscì a Cosenza per tutto il 1864. Redatti in una prosa lucida ed efficace, i suoi articoli denunciano gli errori commessi dal governo nella repressione del brigantaggio, nella scelta degli impiegati nell’amministrazione pubblica o nella mancata costruzione delle strade promesse, ma additano anche, in modo spassionato e lucido, i difetti del popolo calabrese e le piaghe croniche della società meridionale. Ma anche in un altro campo, forse più suggestivo e di maggior presa sulle classi popolari, si esercitava la protesta contro il “piemontesismo”: nella poesia dialettale, in cui l’uso stesso del dialetto attesta il rifiuto, a volte misoneistico, di un cambiamento che aveva peggiorato i mali della Calabria. A lungo sono rimaste affidate a manoscritti le poesie del sacerdote Antonio Martino (nato a Galatro, vissuto tra il 1818 e il 1884), già liberale e perseguitato dai Borboni, e che continua la sua protesta contro il nuovo regno: nella “Preghiera del Calabrese al Padreterno contro
“Non vidi o Patritiernu, lu mundu mu sdarrupi ch’è abitatu di lupi e piscicani? Priestu, mina li mani vidi cuomu mu fai cacciandi di sti guai manneja aguannu!” ………………. “Sempi, ‘ndi cugghjiunijia a tutti sti paisi, ca sgravanu li spisi e fannu strati, e ‘mbeci cchjiù gravati li spisi e strati nenti, e nui povar’aggenti li cridimu” (Littira allu Patritiernu) Mastru Bruno si riferisce qui alla promessa di costruire la famosa “Trasversale delle Serre”, che a cinquant’anni dalla sua progettazione i suoi compaesani ancora aspettano, e chiude così, con un epilogo tristemente noto in una regione quasi fatalmente destinata ad essere emblema di arretratezza e marginalità: “…..e pue quando vidimu, smurzata la lanterna, cu ‘nà “recumeterna” “Addio Calabria!”. In quest’altra poesia dal titolo “Alla Luna” Mastru Brunu commisera la situazione di chi è preda dei tiranni, che hanno sempre ragione e speculano sull’ignoranza del popolo, proteggendo gli sfruttatori e i potenti e mandando in prigione per delle inezie i poveretti; anche questi versi restano, purtroppo, di bruciante attualità: “Sacciu si fazzu arruri? Cu è c’avarìa mu ceda, lu povaru ch’è preda o lu tirannu? Idhi, chi fannu fannu, hannu sempi ragiuni: sprùttanu lu minchiuni e la ’gnuranza. Pi chissu la crianza quasi sempi pirdivi e frustai muorti e vivi ad unu ad unu! Si pue spari a corcunu, la leggi ti ruvina; però a ccu t’assassina cu’ la fami nci ràpira li mani e sparti li prutéggia; e nnui pi ’nu manneggia simu rei.”
Molti altri nomi si potrebbero fare, di poeti e letterati più o meno colti che si espressero in quegli anni, per dar voce alla delusione di quanti avevano sperato in un vero cambiamento dopo le lotte risorgimentali: ho voluto, stavolta, citare i più significativi e sanguigni, che a lungo sono rimasti nella memoria popolare.
i Piemontesi” si fa interprete del malcontento popolare contro la prepotenza di quegli intrusi, venuti in Calabria con modi da conquistatori, ad offendere le sacre tradizioni: “…. Calaru di Piemunti allindicati, na razza chi mangiava dhà pulenti e di Netali e Pasca dui patati. Iestimaturi orrendi e miscredenti e facci tosti e latri cedulati, superbi, disprezzanti, impertinenti, sèdinu all’umbra e fannu tavulati cu li suduri chi jettamu ardenti. E di li fundi nostri cilonari nui diventammu, ed idhi propetari….” …Guardaru in prima misa l’olivari, l’agrumi, li vigneti e mandri e frutti, e disseru fra loru: «Nc’è di fari! ccà nc’e di beni mu ngrassamu tutti». E sùbitu si misaru a sciancari a schiatta panza, ad alleggiari gutti, poi dazi senza fini a mmunzedhari pe comu s’ammunzedha ligna rutti, e pe dicchiù «li schiavi cunquistati» ndi chiamanu, li facci d’ammazzati.” Manoscritte sono rimaste per lungo tempo anche le poesie di Bruno Pelaggi, detto Mastru Brunu (1837- 1912) di Serra San Bruno, scalpellino e analfabeta, che dettava alla figlia i suoi fieri canti di protesta, nel dialetto rozzo ed efficace delle sue montagne. Anch’egli si rivolge al Padreterno nelle sue invettive: |