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Data: 31/12/2005 - Anno: 11 - Numero: 4 - Pagina: 32 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

RICORDI

Letture: 1181               AUTORE: Caterina Guarna (Altri articoli dell'autore)        

(Riceviamo e con piacere pubblichiamo un prezioso contributo che l’amica Caterina Guarna, che risiede a Pisa fin dall’Università ma è di sangue badolatese, ha voluto di recente mandarci. E la ringraziamo anche da queste colonne.)

RICORDI

Nella vecchia piazza Santa Barbara riaffiorano uno per uno i ricordi.
Lì di fronte c’era la bottega del nonno, “u varihr!aru”, profumata di legno fresco, con i cerchi delle botti e le doghe dei barili.
Di fronte, la casa dei “Ddavi” da cui proveniva il rumore di un telaio. A sinistra la bottega di Mastr’Umbertu, dove si andava a comprare la pasta o la farina per fare il pane, e la casa di Sisina, mia compagna di giochi. Di sotto, nel fresco vicolo tutto fatto di scalini, la casa di mia cugina, più grande di me, in cui ci si rifugiava nelle ore più calde del giorno.
E nella loggia, da cui si vedeva il mare lontano, la nonna stendeva il bucato o metteva a seccare o i fichi o i pomodori.
Nel pomeriggio, quando il sole era meno caldo, si andava nell’orto del nonno, dopo la chiesa di San Domenico: ci si portava da casa una cipolla e un pezzo di pane, la zia coglieva un pomodoro, e si faceva così la merenda. E poi osservavamo la zia che irrigava, aprendo e chiudendo solchi con la zappa, mentre l’acqua correva da una “ràsola” all’altra.
La sera, sotto le stelle, ci si raccoglieva nella piazza, davanti alla casa dei nonni: i grandi raccontavano vecchie storie di “spìriti” e noi bambini ascoltavamo, assorti e a volte impauriti.
E poi arrivava la grande festa della vendemmia: ci si svegliava che era ancora buio, ci si preparava alla luce delle lanterne a olio, le donne si mettevano i “gistùni” sulla testa e si partiva, a piedi, affrontando, ancora col buio, “a petta ’e l’àngeli”.
Al convento si faceva la prima sosta, per bere e riposarsi. Dopo tanto camminare si arrivava a vedere da lontano “a casèhr!a” e dall’altra parte il sole che sorgeva dal mare, con una luce già calda e intensa. Allora cominciava la discesa e poi la breve salita che portava a “Fangèmi”, dove ci aspettavano i filari gonfi di uva matura. Ed era una festa correre con i “panàri” a raccogliere l’uva e svuotarli poi nei “gistùni” e da lì nel “purmènto”. Là gli uomini a pieni nudi schiacciavano i chicchi e il primo liquido rossastro cominciava a colare nella vasca profonda.
Avevo sei anni, quando ci fu l’alluvione.
Ero andata con mio padre al paese per la vendemmia e mia madre era rimasta in città, con i miei fratelli. Ricordo le giornate interminabili di pioggia, che non smetteva mai, e io non potevo far altro che guardare dalla finestra la campagna di fronte: là vedevo, come in un sogno, camminare gli alti e possenti alberi di ulivo lungo il fianco della montagna. E man mano che passavano i giorni anche le case cominciavano a venire giù: ogni tanto arrivavano notizie di crolli e frane e morti, e le donne piangevano impaurite. E poi ci fu la grande processione, a cui tutto il paese partecipò, per chiedere alla Madonna la fine della pioggia.
Si rimase isolati per giorni e giorni e non c’era modo di comunicare col mondo esterno, di mandare notizie a mia madre che sicuramente era in apprensione.
Poi la pioggia finì, tornò il sole, cominciò l’ altra processione, quella dei politici e dei notabili che venivano a vedere i danni e a fare promesse… questo l’ho saputo dopo, da grande: nei miei occhi di bambina è rimasta l’immagine dei grandi olivi che scendevano dalla montagna, come in una favola.


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