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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/12/2020 - Anno: 26 - Numero: 2 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

UN BACIO DIFFERITO

Letture: 641               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

Concetta è nata, ormai tanti anni fa, in un paese del profondo sud d’Italia, un centro
urbano collinare, in cui la distinzione tra le classi sociali è stata nei secoli sempre evidente e
difficilmente mutabile. Nata in una famiglia di contadini, era destinata a vivere per tutta la vita
nel mondo verde dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame. Ma suo padre, a differenza
di tantissimi altri braccianti agricoli, veniva spesso assunto a fare l’operaio presso imprese
edilizie di vario genere. Quale operaio, difatti, subì persino il confino, negli anni Trenta, per
aver pubblicamente protestato -si disse- , insieme ad altri, per il ritardato pagamento del salario
dovuto per giornate lavorative alla costruzione del nuovo ponte della strada ferrata sul torrente
Ponzo. Concetta, pertanto, e suo fratello Raffaele, sarebbero stati avviati fin da bambini al
lavoro dei campi se il padre fosse stato soltanto bracciante agricolo e non anche bracciante
industriale, attività che gli procurava dei contanti e quindi un certo benessere. Condizione
quasi di privilegio che consentì alla famiglia di Còsimu ’e fìmmana vecchja di fare un salto
di qualità, dando ai figli la non comune possibilità di passare dal ceto contadino a quello
artigiano, certamente non ricco ma socialmente più elevato, tipo di cerniera tra la stragrande
maggioranza della gente dei campi e i non pochi borghesi del paese.
Raffaele, quindi, fu discepolo di bottega e poi sarto sino alla partenza, nei primi anni
Cinquanta, per l’Argentina, dove mise su famiglia e dove finì i suoi giorni, senza aver mai più
rivisto il suo paese. Concetta, dal canto suo, ebbe la possibilità di cominciare a realizzare il suo
sogno di diventare una moderna sarta.
Finita la scuola dell’obbligo, che da alcuni decenni era passato dalla terza alla quinta
elementare, un bel giorno di primavera la piccola Concetta fu accompagnata dalla mamma da
una delle più brave sarte, che abitavano nella parte alta del paese, e facevano le “maìstre” in
casa, così come le tessitrici e le ricamatrici, poiché solo i mestieri maschili, falegname fabbromaniscalco
sarto-barbiere…, venivano esercitati in locale attrezzato a bottega artigianale, in
molti casi collegata all’abitazione. Fu un giorno felice, per la piccola discepola, già consapevole
che se avesse avuto la capacità e la costanza di seguire ad occhi ben aperti quella elegante,
simpatica e brava signorina che aveva davanti, sarebbe diventata in poco tempo la migliore tra
le numerose apprendiste tra le quali era venuta a trovarsi. L’impegno l’assiduità e la capacità
di apprendimento diedero fin da subito lusinghieri risultati che facevano bene sperare per il
futuro. Intanto la bambina era diventata un’adolescente, e quindi una simpatica signorinella
sulla quale cominciavano ad orientarsi gli sguardi e le attenzioni dei giovani del luogo, ed
anche l’ammirazione e la simpatia di non poche madri che avevano figli maschi già pronti a
metter su famiglia.
Nel volgere di pochi anni Concetta, ’a figghja ’e Còsimu ’e fìmmana vecchja e de Nunziàta ’a
Rosàta, era diventata una brava sartina alla quale si rivolgevano tante famiglie per la confezione
di ogni capo d’abbigliamento femminile, dal grembiule all’abito da sposa. Elegante, equilibrata
e seria, era ormai considerata un buon partito per giovani altrettanto seri del paese, che non
fossero, naturalmente, contadini, perché una sarta era destinata ad andare sposa ad un altro
artigiano, od anche, ma raramente, a qualcuno che avesse un impieguccio. E numerosi erano i
giovani che l’avevano adocchiata, e già progettavano di avvicinarla, prima o poi.
Una mattina del mese di dicembre, mentre era nella chiesa dell’Assunta dove si era recata
con la madre per la Novena di Natale, alzando gli occhi Concetta incrociò lo sguardo limpido e
sereno di Nato, un giovane fabbro del paese, che aveva già bottega, ereditata dal proprio padre.
Una persona affidabile, il giovane fabbro, di cui erano note e venivano apprezzate tante belle
qualità. Con il continuo lavoro nella forgia portava avanti la famiglia, fin dalla morte del padre,
quando egli aveva ancora diciotto anni. Cattolico praticante, dedicava parte del suo tempo alla
Confraternita dell’Assunta di cui era membro assiduo, collaborando anche alla manutenzione
della chiesa per quel che poteva grazie al suo mestiere. Suonava la chitarra di cui faceva uso
soprattutto per coinvolgere tanti suoi giovani coetanei in incontri di musica, ballo, teatro di
strada a Carnevale.
Quell’incrocio di sguardi, quella mattina nella chiesa dell’Assunta, è stato il tacito accordo
e il valore di legame tra due anime cristalline. In quel momento ebbe inizio un percorso che
avrebbe portato i due all’unione per tutta la vita. E ciò, nonostante qualche anno in più sulle
spalle di Nato, e qualche minuta crepa nella sua salute, a causa dell’eccesiva fatica alla quale
si sottoponeva. Due fattori, non proprio positivi, ma che non hanno costituito ostacolo al
progredire del nobile sentimento che andava irrobustendosi giorno dopo giorno, serenata dopo
serenata. Sì, perché Nato non mancava di portare, di tanto in tanto, la serenata con la chitarra
o con il giradischi sotto la finestra della sartina. Così per un tempo non tanto lungo, perché
non ritenevano i due giovani, di rimandare a lungo ai genitori di Concetta la comunicazione
formale dei propri reciproci sentimenti.
Si era arrivati intanto all’autunno inoltrato, alla stagione della seminagione dei cereali nelle
marine e della raccolta e molitura delle preziose olive nei numerosi frantoi del paese, attività
obbligate un po’ per tutte le famiglie del luogo, quindi anche per i genitori di Concetta. Una
sera di novembre il bravo Cosimo si recò al frantoio vicino casa dove si stava procedendo alla
molitura di una sua màcina di olive. Nell’oziosa attesa della fine dell’operazione ebbe occasione
di scambiare poche parole con un tale che era noto tra la gente come persona che conosceva
tutto di tutti. Conversando chiese tra l’altro al padre di Concetta se era vero che la figlia si
era fidanzata con Natu de’ Forgiàri. Quello rispose che no, che non ancora, che i due giovani
intendevano fidanzarsi, ma lui, il giovane fabbro, non aveva ancora chiesto ufficialmente la
mano della figlia. “Ma u sapìti -disse il tale che sapeva tutto di tutti- ca u giuvanòttu è malàtu
’e cora?” Il buon uomo, che non sapeva nulla, rimase tanto sorpreso e frastornato da non
profferir parola. Riuscì malamente a ostentare indifferenza, e s’avviò verso la gira a guardare le
sue olive che venivano maciullate da due granitiche pesanti macine fatte girare da una robusta
vacca. Quando rientrò a casa, dispiaciuto e rattristato, ne parlò con la moglie, e anche per lei
fu sorpresa e dispiacere, perché il giovane Nato era un buon partito, ma la figlia, decisero
i due genitori, non poteva sposare un giovine malato: doveva dimenticarlo. La decisione fu
comunicata la sera stessa a Concetta, che ascoltò senza parlare, e rinviò il pianto a quando si
trovò sola nel suo lettino, nel buio e nel silenzio della notte. L’indomani, con la stessa amica
vicina di casa che aveva favorito i pochi incontri segreti tra i due, fece recapitare a Nato una
pagina di quaderno su cui c’era scritto: “Non venire all’appuntamento, non domani e mai più,
e non mi fare più serenate. Mi dispiace. Addio.” E Nato non riscontrò mai il messaggio: non ne
ebbe la forza, né il modo. Ne soffrì soltanto, quanto non è facile dire ma si può immaginare; ne
fu scosso in tutto il suo essere, cuore compreso. Continuò a lavorare sodo, anche per distrarsi in
qualche modo, e ad incontrare alcuni giovani amici che gli erano affezionati.
Presto, in un freddo giorno di gennaio, arrivò la signora con la falce, quella che “pareggia
tutte l’erbe del prato”. E fu la fine.
Ma la vita continua, a dispetto di tutto e di tutti. Passarono alcuni anni e la sartina Concetta,
figlia di Cosimo ’e fìmmana vecchja, si fidanzò con un bravo giovine che veniva da lontano,
che la portò all’Altare. Dal matrimonio nacquero dei figli, e “fu famiglia”, famiglia normale,
tranquilla, serena, sana.
Si sa, con gli anni s’invecchia, ci si ammala, si finisce. E fu l’ora anche della mamma di
Nato, invecchiata e uccisa dalla vedovanza e dalla scomparsa del figlio, carne della sua carne.
Una donna di cui si sente parlare ancora oggi: a distanza di oltre cinquant’anni, in chi l’ha
conosciuta sono vivi il ricordo e la stima.
A far visita alla defunta nella casa che fu anche del giovane Nato, quel giorno non
mancava nessuno: tutto il popolo era lì, alternandosi accanto alla bara, per dare l’ultimo saluto
a una donna che aveva tanto amato e sofferto, con forza d’animo e dignità. Mancava, però,
Concetta, che soffriva in silenzio a casa propria, torturandosi nel dubbio se era opportuno che
andasse anche lei a far visita alla mamma di Nato, o se fosse consigliabile starsene a casa,
nell’indifferenza per il triste evento. Non indugiò a lungo, però: si alzò di scatto, coprì la testa
con una veletta e si diresse decisa all’ultimo saluto alla donna che la vita le aveva negato di
chiamare mamma. All’arrivo, non si fermò nella stanza in cui decine di altre donne recitavano
il Rosario, ma andò oltre, sino alla bara. Sostò ritta, assorta come in preghiera, poi si piegò,
lentamente, e posò un bacio sulla fredda guancia. Ancora lentamente si girò e si avvio verso la
porta, per fare ritorno alla sua casa, alla sua famiglia.
Non molto tempo fa, rimembrando nel corso di una conversazione quella lontana triste
giornata, rivelò serena, come in confessione: “Appena ho messo piede in quella casa ho avuto
la sensazione di sentire provenire da lontano le note musicali emesse da una chitarra. E son
tornata ad un lontano passato. Non avevo mai baciato una persona morta, neanche i nonni: a
spingermi a dare quel bacio è stato Nato.”.



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