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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2002 - Anno: 8 - Numero: 4 - Pagina: 38 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

VAPORIZZATI

Letture: 1171               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

Ogni tanto in Italia, ma anche in giro per il mondo civile, d’Occidente e d’Oriente, salta fuori un dossier segreto che, talvolta, tanto segreto non è. Gli si dà l’amplificazione che pure merita, magari lo su strumentalizza ad usum delphini, per un po’ di tempo occupa le prime pagine e le prime serate dei più importanti mezzi di comunicazione, e poi… nel mondo dell’oblio. Forse non c’è da stracciarsi le vesti per questo; forse ciò risponde ad elementari esigenze prettamente umane; si potrebbe persino dire, forse, che è giusto che sia così. E meno male che è così.
Sull’onda emotiva di una di queste scoperte, alcuni anni fa correva voce -ma solo voce, in sordina- che immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, mediante un accordo molto segreto tra il governo italiano e qualche altra grande potenza, fu favorita, se non proprio stimolata o decisa, l’emigrazione quasi di massa, verso l’America Latina.
C’era il pericolo, allora, che a causa dell’orientamento politico di grandi masse operaie, in Italia potesse avere il sopravvento, con il voto democratico, il Partito Comunista. La nostra penisola sarebbe quindi diventata una grande portaerei “nemica” in mezzo al Mediterraneo. E ciò sarebbe stato un fatto grave, soprattutto perché contrastava con gli accordi di Yalta.
Secondo questa voce, per la verità mai confermata almeno sino ad ora, il molto segreto accordo prevedeva che l’Eldorado delle speranze e delle lacrime di milioni di Italiani (Calabresi soprattutto) doveva esser l’America Latina, più particolarmente l’Argentina. Perché il Continente latino-americano poteva offrire infinito spazio vitale, facile possibilità di lavoro, habitat culturale favorevole; ma soprattutto nell’America del Sud abbondavano (ed ora?) governi forti, capaci di stroncare ogni sia pur virulento anelito di uguaglianza sociale, di socialismo, di riscatti dallo stato di miseria e di subalternità rispetto alle classi dominanti. In poche parole, le teste calde nell’America del Sud non avrebbero avuto vita lunga. Naturalmente con la benedizione di taluni potentati di tipo economico e politico, che ne avrebbero tratto esclusivo vantaggio. Il costo non importava. Non interessava. Non era argomento da porre sul tappeto. Si tratta, naturalmente, di supposizioni, di voci, di illazioni forse, che non autorizzano alcuno a fare la benché minima asserzione. Tanto meno lo facciamo noi, anche perché non vorremmo che un’infinità di benpensanti ci accusasse di fantapolitica.
Alla fantapolitica non appartengono sicuramente, però, i trentamila desaparicidos dell’Argentina: dramma storico intriso di abbondante sangue, anche italiano, dal 1976 al 1983. Sterminio consumatosi in quel grande e amico paese dall’avvento della dittatura militare guidata dal generale Jorge Rafael Videla alla democratica elezione del presidente Raúl Alfonsín. Ancora oggi, a distanza di un ventennio dalla fine di quell’eccidio, viene spontaneo domandarci com’è stata possibile un’infamità di tali proporzioni senza che il mondo “civile” e religioso occidentale alzasse alta e forte la sua voce per esecrare, e sentenziare, e condannare.
Noi non siamo certo le persone più indicate per scriverne, ma la “Triple A” (Alleanza Argentina Anticomunista) è veramente esistita, ed a lungo ha agito indisturbata con i suoi squadroni della morte. Così come sono esistiti i trecentosessanta cinque CCD (Centri Clandestini di Detenzione), luoghi non solo di prigionia, ma anche di tortura e di sterminio, gestiti dalle tre Forze Armate e dalla Polizia Federale. Luoghi di detenzione dove sono entrati, quasi tutti senza uscirne, operai (30%), studenti (21%), impiegati (18%), professionisti (10%), insegnanti (5%). Ottomilanovecentosessanta secondo la Commissione Nazionale d’Inchiesta, ma non meno di trentamila, secondo numerose e attendibili altre fonti. Tutti definiti, dai responsabili dello sterminio, “sovversivi sconfitti da una guerra giusta”. Con tale terminologia etichettando quanti “auspicavano una rivoluzione sociale”, quanti “davano una mano alla povera gente delle villas miserias… dirigenti sindacali… ragazzi dei centri giovanili… giornalisti non asserviti… giovani pacifisti, suore, preti…”. Tra i quali tanti figli e nipoti di italiani, tutti terroristi, secondo il potere instauratosi nel marzo del 1976. A nulla sono valse le continue manifestazioni a Plaza de Majo delle disperate madri col capo coperto dal fazzoletto bianco, decine e centinaia: le Hanno soprannominate Las Locas, le pazze. Come vane sono rimaste le manifestazioni delle las abuelas, nonne di cinquecento bambini cui sono state uccise le madri dopo averle fatto partorire: piccoli desaparicidos fin dalla nascita, privati della propria identità per essere presi in possesso da potenti , da carnefici, ed anche da gente che ignorava la terribile verità.
Il pensiero va, naturalmente, a “1984”, opera profetica di Orwell, edita da Mondadori nel 1950: “…non c’era processo e nemmeno una semplice relazione dell’arresto. La gente spariva, così, semplicemente…Il nome dell’arrestato sarebbe stato cancellato dai registri, e ogni traccia di ciò che avesse mai fatto veniva anch’essa cancellata, la sua stessa esistenza… sarebbe stato abolito, annullato, vaporizzato,…”.
Sette anni, in terra d’Argentina, in cui la gente veniva “vaporizzata” sotto gli occhi distratti del mondo intero, di chi fa le guerre “giuste”, a piacimento e per esclusivo interesse economico; di chi da un alto trono avrebbe un alto ed ineludibile dovere d’intervento; sotto gli occhi distratti di autorevoli personalità politiche di governi democratici e civili, come l’Italia. Occhi distratti, o copertura, se non collusione?!
Noi ci fermiamo qui. Perché non vogliamo, non possiamo e non dobbiamo andare oltre. Ché non è nostro compito. Chi volesse saperne di più potrebbe leggere “In Sudamerica”, opera di Italo Moretti pubblicata di recente da Sperling&Kupfer, libro a cui dobbiamo la parte maggiore delle informazioni in nostro possesso, ed al quale abbiamo attinto -onestà intellettuale esige di dichiararlo- molte delle notizie di cui sopra. Se abbiamo scritto di questo argomento è perché non solo indirettamente e in generale riguarda Badolato, come ogni altra parte d’Italia e del mondo, ma soprattutto perché in tutta la vicenda compaiono, marginalmente o da protagonisti, persone comunque vicine a Badolato.
Nel processo celebrato dalla II Corte d’Assise di Roma, con cui sono stati comminati due ergastoli a due generali e condanne a 24 anni di carcere per altri cinque militari, argentini, per la scomparsa di otto persone di origine italiana, tra cui il piccolo Guido fatto nascere (giugno 1978) prima di sopprimere la madre (agosto 1978), il Pubblico Ministero è stato un badolatese, che ha contribuito, con il suo lavoro di magistrato, a ridare fiducia a tanta gente, a cominciare dai numerosi parenti delle vittime che erano presenti al processo insieme a Estela Carlotto, leader delle abuelas di Plaza de Majo, nonna del piccolo Guido. Una sentenza che ha in parte smentito l’amara dichiarazione di Hebe de Bonafini, una delle più note Las Locas: “Non chiediamo né memoria, né verità, né giustizia. Non crediamo nella giustizia, la memoria l’abbiamo e la verità già la sappiamo. Quindi chiediamo la prigione per gli assassini, i loro amici e i loro complici.”.
Rimarrà una condanna puramente virtuale, come più d’uno l’ha subito definita? Noi vorremmo tanto di no, ma, per la conoscenza che abbiamo di questo nostro mondo, siamo certi, ahimè!, che tra quelli che hanno la potestà e il dovere di obbligare l’esecutività della sentenza, non c’è alcuno che ne abbia l’interesse o la voglia.
Badolatese era, ed è, un professionista che tanto sta lavorando con competenza e produttività in quella nobile e martoriata nazione. Quasi per caso, e quasi certamente in buona fede, era sottratta “presa” una musicassetta che apparteneva a persona a lui vicina. All’ascolto del nastro, in altra sede, incredulità e perplessità dei presenti per i brani canori:

Aqui se queda la clara Seguiremos adelante
la intronable transparencia como junto a ti seguimos
de tu querida presencia, y con Fidel te decimos
Comandante Che Guevara. hasta siempre Comandante.

Tra gli occasionali ascoltatori, la figlia di un poliziotto: immediati i pedinamenti e le indagini, che accertarono l’assoluta onestà e integrità morale dell’allora giovane professionista. Soprattutto non era un comunista. Era il 1977: un desaparicido mancato.
Era, ed è, di Santa Caterina Ionio, l’ormai sessantenne che emigrò per l’Argentina nel 1949. Qui era un attivista comunista. A Buenos Aires fu arrestato tre volte; la terza volta rimase in carcere per oltre un mese. Pensò bene, alla fine, di far rientro in Italia, al suo paesello: era sulla nave del ritorno nella terza decade del mese di marzo del 1976, mentre il generale Videla saliva al potere.
Era di Badolato il giovane diciottenne contadino che nel 1955 approdò in Argentina con negli occhi la gioia di vivere e la cuore la speranza di un futuro sicuramente migliore di quello che lo avrebbe atteso se fosse rimasto nel suo sempre amato paese. Con lui il padre, la madre, e quattro tra fratelli e sorelle. Fin dall’età di 11 anni aveva cominciato a frequentare la sezione del Partito Comunista, ed era tra quelli che per le vie del paese, nelle sfilate e nei comizi elettorali cantavano “Bandiera rossa” e il “Sole dell’avvenire”. In Argentina non c’erano sfilate del genere cui partecipare, ma Francesco (gli diamo questo nome) continuò ad esser comunista, senza tentennamenti e senza infingimenti. Quand’era libero dal lavoro frequentava i luoghi del Partito del proletariato, firmando così la sua condanna. Gli uomini della “Triple A” sono andati più volte a casa per arrestarlo, ma il nostro Francesco era introvabile. L’attenzione si spostò quindi su uno dei fratelli, che pur non era comunista, giacché era costume di quella gente concedere talvolta la propria attenzione anche ai congiunti intimi del “sovversivo”. L’ha fatta franca perché da poco si era trasferito con la famiglia in altro paese. Un’ennesima irruzione notturna in casa di Francesco ebbe esito favorevole. In verità non si potrebbe scrivere di desaparicido, perché, grazie all’intervento di un avvocato amico di famiglia, comunista anche lui, alcuni giorni dopo la scomparsa il corpo del nostro “sovversivo” fu trovato nel posto indicato. Non sappiamo se per eccezionale favore, o per vile denaro.
Oggi Francesco riposa nel cimitero di….., accanto ai genitori, senza il conforto del mesto ricordo di figli che non ha mai avuto, né della moglie che lo seguì di lì a poco nella tomba.


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